Emilio Salgari - La tigre della Malesia

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Sono uno contro dieci, ma in quel momento non si contano. Avventano colpi disperati, troncano braccia e aprono teste, urlano per ispargere maggior terrore nelle file nemiche, cadono, indietreggiano, si avanzano come le onde del mare, si aggrappano ai combattenti dilaniandoli coi denti e colle unghie, facendosi scudo coi corpi dei cadaveri; perdono le armi infrante ma strappano quelle dei nemici incalzanti e ricominciano l’omerica lotta fra i gemiti dei feriti.

Il valore doveva cedere al numero. Moschettati sopra, sciabolati a tergo, ributtati dinanzi, avviluppati da un nemico dieci volte meglio armato e che diventava ognor più numeroso, muoiono vendendo cara la vita, ma muoiono. Sei uomini cadono trafitti in meno di venti secondi.

Sandokan e gli altri, coperti di ferite colle scimitarre in pugno sono costretti a retrocedere dinanzi quella barriera irta di armi; facendosi strada fra i moribondi, si precipitano a prua tentando con uno sforzo disperato d’arrestare quella valanga di gente col cannone.

A mezza via Sandokan rotola sul ponte insanguinato con una palla nel petto. Gettò un ruggito di dolore. I suoi uomini gli si stringono d’attorno.

– Ammazza! Ammazza! – urlò ancora il ferito e sollevandosi con uno sforzo disperato si preparò a far testa al nemico che correva all’assalto colla baionetta.

L’urto fu terribile. I tre pirati, che si erano gettati dinanzi al loro capo facendo scudo coi loro corpi, caddero fulminati. Ma non così avvenne della Tigre della Malesia miracolosamente salvata dai suoi prodi.

Il formidabile uomo gettando il suo urlo di guerra spaccò la testa al primo uomo che gli si parò dinanzi, poi gettando da un lato l’arma seminfranta, abbrancando un marinaio e sollevandolo con forza erculea malgrado la ferita che mandava fiotti di sangue, si avventò contro una delle murate. Frantumare la testa del poveretto con una terribile stretta, scavalcare le murate e precipitarsi in mare prima che le baionette l’avessero toccato, fu per lui l’affare di un lampo.

Ma un tale uomo, dotato di una energia sovrumana e del coraggio della tigre, quantunque ferito e spossato, non doveva sì facilmente morire.

Mentre il piroscafo proseguiva la sua via trasportato dalle ultime battute delle ruote egli con un colpo di tallone risalì silenziosamente a galla, e rattenendo con ferrea volontà i gemiti che gli strappava la ferita al contatto dell’elemento corrosivo, si mise a nuotare come un pesce verso l’est senza lasciare traccie, senza destar attenzioni e con tutta la velocità di cui era capace un marinaio come lui. Il legno da guerra virava allora trecento passi lontano. Esso si avanzò descrivendo un gran cerchio attorno al luogo ove si era inabissato il pirata, coll’intenzione di tagliarlo in due collo sperone. Non bisognava lasciar vivere uno di quegli uomini di una razza maledetta, che durante dodici ore di una lotta sanguinosa aveva tenuto in scacco uno dei più valorosi legni della marina inglese.

Ma Sandokan, se il legno lo cercava attivamente, egli era ben deciso di sfuggire, di tutto tentare per guadagnar la costa che non doveva essere gran fatto lontana e meditar di là una strepitosa vendetta. Egli si era arrestato immerso per quattro quinti, protetto dall’oscurità, rannicchiato quasi su sé stesso nel liquido elemento a lui tanto famigliare senza gettare un sospiro, senza fare un gesto, senza movere occhio. Galleggiava come un rottame abbandonato pel quale si poteva prenderlo se fosse stato scorto.

Il piroscafo compì il suo giro mordendo le acque, poi si arrestò come cercasse indagare quei flutti da lui agitati e ripigliò le ricerche tagliando quello spazio in mille guise, virando da babordo a tribordo colla speranza di incontrare il nuotatore, e di lacerarlo o di stritolarlo sotto le ruote.

L’equipaggio intero fornito di fanali era sparso sulle murate, sulle griselle o calumato fino alle patte delle âncore per cercare di scoprirlo. Ma la manovra non riuscì benché lo sperone e le ruote passassero a pochi piedi da Sandokan sempre immobile e qualche palla tirata a casaccio facesse rimbalzar l’acqua a pochi pollici dal suo capo.

Dieci minuti dopo il piroscafo, sicuro che il pirata erasi annegato o era caduto sotto il dente di qualche pesce-cane, si allontanava a tutta forza della sua macchina dirigendosi verso il nord, lasciandosi dietro una scia fosforescente, gorgogliante, in mezzo alla quale ondulava qualche cadavere.

Sandokan, appena fu sicuro che la distanza e il fragor delle ruote soffocavano più che sufficientemente il rumor dell’onda tagliata dalle sue braccia, dopo di aver passato la cintola sulla ferita per arrestare l’emorragia e d’averla bene stretta, ricominciò a nuotare con tutte le forze che ancor rimanevano nel suo corpo impoverito di sangue. Egli non gemeva ad onta degli atroci dolori che soffriva ma si mordeva le labbra con una specie di furore, alternando fra una battuta e l’altra una bestemmia, un giuramento, comprimendo colle dita la cintola stretta sulle labbra della ferita dalle quali usciva un filo di sangue che si mesceva coi flutti d’inchiostro. Tutta la sua ira, tutta la sua vendetta era là, su quel piroscafo che dopo averlo battuto fuggiva, su quel piroscafo che lo aveva sconfitto per la prima volta in vita sua, su quell’incrociatore che scorrazzava quei mari non suoi, su quel fantasma potente quanto terribile che avea fatto mordere la polvere alla Tigre della Malesia.

Lottando disperatamente fra le acque sfinito per la perdita del sangue, quell’uomo aveva dei momenti in cui sfuggendo la costa si metteva insensatamente a inseguire il piroscafo che a poco a poco impiccioliva scomparendo fra le tenebre, lo chiamava, bestemmiava, lo sfidava, alzando le mani raggrinzate, frementi, strette come attorno l’impugnatura di un’arma immaginaria, scagliandogli contro mille insulti, mille minacce. Oh! allora sì pareva dar ragione a quel nome di Tigre della Malesia, e come nella pugna digrignava i denti, gli occhi mandavano lampi, e lanciava quel sordo mugolio che lo rassomigliava alla tigre.

Ma a poco a poco quei deliri, quella collera insensata sparvero, sfumarono, e il formidabile pirata richiamato alla realtà ripigliò il faticoso esercizio, cercando la costa avvolta fra fitte tenebre che non permettevano ancora di scorgerla rimandando in cuor suo quella vendetta, che per lui era la vita.

Nuotò così parecchio tempo, soffermandosi tratto tratto per ripigliar fiato e per istrapparsi di dosso le vesti onde acquistare maggior libertà nelle mosse, poi cominciò sentirsi spossato. Rallentava le mosse, sentivasi irrigidire le estremità dei piedi e delle mani, e la ferita strappavagli lugubri gemiti. Pure non era uomo da cedere sì facilmente. Voleva vivere per potersi vendicare, per potere un giorno schiacciare alla sua volta il maledetto che lo aveva battuto. Con una mano raggrinzata sulla ferita, facendo sforzi sovrumani, continuò a tirar innanzi deciso a guadagnare le coste di Labuan.

– È d’uopo che viva! – andava esclamando egli ferocemente fra una battuta e l’altra dei piedi. – Bisogna che io vendichi i miei prodi! Bisogna che ritorni io il padrone del mare. Dove sono queste maledette coste di Labuan? Ah! Perla, quanto mi sei costata! Eppur ti voglio vedere!

Egli così parlando si animava, mordeva la spume, tendeva i pugni battendoli quasi con furore su quei flutti che egli diceva suoi, quasi volesse far comprendere a loro che egli era il padrone. Si arrestò per la ventesima volta affranto da quegli sforzi erculei, ansante, coll’occhio stravolto, cercando l’isola e coll’orecchio teso per accogliere il fragore della risacca che ne segnalasse la vicinanza.

Si aggomitolò su sé stesso, gettando rauchi gemiti lasciandosi portare dal flusso che lo spingeva verso la costa. Le membra si irrigidivano per la perdita del sangue e per la spossatezza, il respiro diventava affannoso, gli occhi si velavano sotto ombre sanguinose e mille rumori gli risuonavano nelle orecchie, mille urli disperati, mille chiamate a cui parevano unirsi ruggir di bronzi e detonazioni di moschetti, che la febbre mille volte raddoppiava.

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