Antonio Ghislanzoni - Racconti e novelle

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Amici: perdonate questo sfogo – prima di riprendere la mia storia, vi prometto che sarà l'ultimo.

Era un bel mattino… di primavera, già s'intende… Seduto sovra una panchetta di granito, io dominava le viuzze sottoposte – una siepe di robinie proteggeva il mio agguato. – Allo scoccare delle sei, il mio Arturo, colle mani in saccoccia e la testa ondeggiante, si introdusse nella piccola via, dove subito venne raggiunto da una donna semplicemente vestita, col capo ravvolto in un velo.

Il Della Valle si arrestò, trasse la mano di tasca e fece l'atto di stenderla alla donna; poi, arretrò di due passi come istupidito, e poichè la signora ebbe scambiato quattro parole con lui, si allontanò a passo lento, e disparve.

Il colloquio era stato tanto breve e la separazione così pronta ed inaspettata, che per poco il mio piano rischiò di andare a vuoto. Fortunatamente la signora prese la via del bastione: onde io, riavutomi dalla sorpresa, le mossi incontro, e, sbarrandole audacemente il cammino, la investii di tal guisa:

– Signora Amalia… perdonate…

– A chi ho l'onore di parlare? chiese la signora con voce pacata, arrestandosi a me dinanzi, senza dar segno di turbamento o di dispetto.

Quel contegno nobilmente disinvolto impose per un istante alla mia arditezza. Ma io mi accorgeva di trovarmi in una falsa posizione; se la mia esitazione fosse durata più a lungo, avrei fatto una ridicola figura, mi sarei irremissibilmente perduto.

– Ah! voi siete ben dessa! – esclamai dunque con voce commossa, ma coll'accento del più sentito entusiasmo – l'ideale della donna di spirito… l'incarnazione della poesia e dell'amore…

– Signore, mi interruppe ella con accento dignitoso ed amabile ad un tempo – io vi ho pregato di dirmi a chi ho l'onore di trovarmi dinanzi, e voi mi gettate in viso dei complimenti che appena sarebbero tollerabili se partissero da un amico.

– Gli è che io, ripresi con enfasi, sono propriamente un vostro leale amico. Noi ci conosciamo da un pezzo, signora Amalia… Noi ci siamo parlati tante volte… La nostra corrispondenza epistolare è stata così espansiva e sincera, che ben si può dire non esistere più segreti fra noi. Tutte le lettere che indirizzaste al signor Arturo Della Valle sono passate per le mie mani… In quelle lettere io ho veduto disegnarsi i tratti gentili della vostra fisonomia, ho assaporate le delicatezze del vostro cuore, ho respirato i profumi del vostro spirito… Voi vedete dunque che noi ci conosciamo… Se nelle lettere che portavano la firma di Arturo Della Valle (e voi stessa lo avete più volte confessato) vi erano espressioni ed accenti atti a commovervi e ad esaltarvi; se avete pianto di gioia per una frase di pietà o di amore; se avete gustato, nello scorrere quei fogli, delle estasi ignote; no, o signora, voi non avete più diritto di affermare che io vi sia sconosciuto. Noi ci siamo parlati… noi ci siamo compresi. Questo povero Della Valle, a cui io dettava le mie speranze e le mie angoscie, a cui voi, signora, indirizzavate le ideali aspirazioni della vostra grande anima, non era che una statua di granito, dove noi abbiamo deposto dei fiori, nella certezza che un'incognita divinità sarebbe scesa a raccoglierli, a respirarne i profumi… Ebbene, sappiatelo… quei vostri fiori… sono io che li ha raccolti… sono io che voluttuosamente li ho posati sul mio cuore… io che ve li ho rimandati coperti di lagrime e di baci… E, fatto audace dal desiderio, inebbriato dall'amore, io fui spinto a seguire le orme della diva misteriosa, ed ho osato sperare che ella un giorno, incontrandosi meco, mi avrebbe tosto riconosciuto. Se voi, signora, potete perdonarmi…

A questo punto, la giovine donna sollevò il velo che le scendeva sul volto, e guardandomi con ineffabile espressione di tenerezza e di affetto, mi disse «Non vi par tempo, o signore, di soddisfare alla mia curiosità, declinandomi il vostro nome e cognome?..

– Io mi chiamo Eugenio Renzi…

– Ebbene: se il signor Eugenio Renzi domattina vorrà recarsi verso dieci ore all'ufficio della posta, troverà una lettera al suo indirizzo.

E ciò detto, colei mi stese la mano in atto di accommiatarsi, e prima che io avessi tempo di proferire altra parola, si dileguò rapidamente sotto le ombre degli ipocastani.

Quel giorno non rientrai al mio domicilio. Io temeva una visita di Arturo; io voleva ad ogni costo evitare un colloquio imbarazzante. Io sentiva di avere abusato della mia posizione, e, quantunque fra me e colui non esistessero vincoli di vera amicizia, pure il cuore mi avvertiva di aver agito con poca delicatezza. Se in me ci fu colpa, il Dio delle vendette mi ha severamente punito, condannandomi ai lavori forzati… del matrimonio.

All'indomani, verso le otto del mattino, sentii picchiare alla porta della mia cameretta.

Era lui – voi tosto indovinate che io risposi… col più rigoroso silenzio.

Il povero innamorato mi chiamò a nome più volte, ripicchiò con crescente vigoria, e, disperando alla fine di vedersi aperta la porta, si allontanò a passo lento per le scale. Quando io, balzato dal letto, attraverso le griglie lo ebbi accompagnato collo sguardo fino allo svolto della contrada, mi abbigliai prestamente, uscii dalla camera, scesi dalle scale a precipizio, e corsi diffilato all'ufficio della posta.

Il cuore mi batteva forte; la stranezza dell'avvenimento mi esaltava la fantasia; io mi trovava in presenza di un enigma interessante, e la mia curiosità ne era vivamente eccitata. Quella donna, che il giorno innanzi io aveva veduta per la prima volta, che sì ingenuamente aveva accolto le mie espansioni di amore, che aveva promesso di scrivermi, non rappresentava forse una protagonista da romanzo dotata delle attrattive più affascinanti? Permettete, miei ottimi amici, che io non mi arresti a descrivervi le bellezze personali di una donna, che oggi si chiama la mia consorte legittima, ed è la madre di quattro marmocchi che portano il mio cognome.

Un marito che descrive le bellezze della propria moglie, commette, al meno peggio, un peccato di imprudenza e, in ogni modo, si rende ridicolo. D'altronde – è legge di natura – dopo dieci anni di matrimonio, il mio pennello s'è alquanto sfibrato, e sulla mia tavolozza troverei difficilmente, per ritrarre la mia cara metà, i colori vivaci e brillanti che in altri tempi avrei prestati alla effigie dell'amante.

*
* *

Dopo aver girovagato alcun tempo nelle contrade adiacenti, verso le ore dieci mi presentai al banco della posta.

Una lettera c'era… una lettera vellutata… profumata… Prima ancora di averla nelle mani e di leggere la soprascritta, io aveva indovinato che quella lettera era uscita dal boudoir di una donna.

Appena fui nella contrada, mi affrettai ad aprirla Quei caratteri mi erano già noti, e il nome di Amalia spiccava sotto le ultime righe. Non c'era luogo a dubitare; la donna che da parecchi mesi intratteneva corrispondenza d'amore con Arturo Della Valle, era la stessa che a me indirizzava quella lettera. Ecco presso a poco ciò che diceva quello scritto:

Pregiatissimo Signore

«Prima di prendere una determinazione, ho voluto riflettere una intera notte. Prego anche voi di fare altrettanto prima di decidervi ad un passo, dal quale può dipendere il mio ed il vostro avvenire.

»Io vi parlerò colla massima franchezza, nella speranza che voi pure vi comportiate meco colla lealtà che si addice ad un uomo di onore, ad un uomo di spirito quale voi siete.

»Jeri mi avete detto che al leggere le lettere indirizzate al signor Arturo Della-Valle, voi foste preso da invincibile simpatia per la donna che le aveva vergate… Ebbene: a mia volta vi dico, che io pure ho subìto il fascino dei vostri scritti, che vi ho amato per la viva, appassionata eloquenza del vostro linguaggio, pei nobili ed elevati affetti che voi esprimevate.

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