— Fai «oh», — disse Catherine cominciando a versare il latte.
— Oh, — mormorò lui contrariato quando si accorse che la scodella minacciava di straripare.
Sentendo rumore di cibarie, Julian riprese la strada della cucina dove qualche ora prima si era nutrito di pudding di riso in scatola e caffè. Indossava un paio di jeans neri, una T-shirt nera e i calzini neri. Dalla punta dei capelli phonati all’attaccatura delle caviglie sembrava una star del cinema francese.
— ’Giorno, — disse con un ghigno, il libro ancora a mezz’aria, come se alzando gli occhi dalla pagina si fosse accorto che la cucina si era spostata portandosi fino a lui.
— Ciao, Julian, — disse Catherine, cercando di non far trasparire la delusione nel veder deturpato quel momento di beata semplicità: la scodella di avena bollente, lei che la offriva, Ben Lamb che la riceveva senza una parola. Mentre Julian si frapponeva senza tanti complimenti fra lei e Ben, Catherine si accorse che il libro che reggeva ad ali spiegate fra le eleganti mani era una specie di thriller con una faccia femminile terrorizzata in copertina, e si sorprese a pensare: quanto non mi piace quest’uomo.
— Julian, vuoi un po’ di porridge?
Alle prime cinque parole della domanda gli si illuminarono gli occhi, spenti però dalla delusione non appena sentito il finale.
— No, grazie, — disse. — Non c’è niente di più… ehm… sostanzioso.
— Non lo so, — disse Catherine, lanciando un’occhiata ansiosa a Ben che infilava cucchiaiate di havermout fumante in bocca. — Il porridge sazia abbastanza, non trovi?
— A dire il vero pensavo a delle uova, — confessò Julian.
— Magari le porta Dagmar quando torna.
— Mmm. — Chiaramente per Julian la prospettiva di chiedere a Dagmar di dividere il cibo con lui non era delle più realistiche.
Catherine si riempì una ciotola con gli avanzi di havermout e chiese a Julian come avesse dormito.
— Ho di nuovo passato mezza nottata in bianco, — si lamentò lui, accomodandosi su uno sgabello. Teneva il tascabile annidato in grembo, con l’immagine patinata di una bellona dagli occhi sgranati che lo fissava dallo spazio fra le magre cosce nere.
— Allora hai sentito le grida? — disse Catherine.
— Grida?
— Sì, là fuori, in qualche punto del bosco.
— Magari era il figlio di Dagmar, — suggerì lui. — O i pipistrelli.
Catherine capì che non aveva sentito niente.
— Io le ho sentite benissimo, — disse Catherine. — Umane. Ma incredibilmente sconsolate e strane. Solo grida, niente parole.
Julian sorrise con indulgenza.
— Un bimbo piange nella notte, / un bimbo piange per la luce, / per tutta lingua ha il pianto ,eh? — disse, senza tradire la minima espressione.
Catherine lo fissò perplessa e a disagio. Spesso Julian aveva certe uscite: la citazione incantatoria di uno dei poeti vittoriani o romantici che lei preferiva, recitata con una scrollata di spalle, neanche fosse la strofetta smaliziata di una pubblicità televisiva o un vecchio slogan elettorale considerato caustico, o superato, o causticamente superato, a posteriori.
In un altro punto della casa, un telefono squillò.
— Gli acchiappaiantasmi, — disse Julian per punzecchiarli.
A telefonare era una ragazza di nome Gina. Voleva sapere se erano d’accordo che andasse quel pomeriggio a pulire ’t Luitspelershuisje, cambiare le lenzuola e tutto il resto.
Per Catherine fu un sollievo quando Roger glielo disse. Chissà perché non si aspettava aiuti domestici; di fronte all’indifferenza del direttore per i loro bagagli, si era fatta l’idea che non fosse nello stile olandese. Ma se qualcuno prendeva provvedimenti per le lenzuola impregnate di sudore del letto che doveva dividere con Roger quella notte, allora era un altro discorso.
Qualche minuto dopo che Roger ebbe comunicato il messaggio della cameriera, Dagmar tornò dalle sue avventure, accaldata e infastidita. Arrancò verso la cucina con una busta di plastica per mano e Axel ancora sulla schiena che frignava e si lamentava.
— Moment mal, moment mal , — lo sgridò lei, lasciando cadere la spesa sulla panca della cucina. Il «Times Literary Supplement» venne occultato da yogurt, albicocche fresche, pane croccante, formaggio, avocadi, carne surgelata, caffè, confezioni di Vla met echt fruit !, contenitori plastificati di salviette per bambini… e uova.
Roger se n’era già andato; Ben Lamb ebbe la cortesia di seguirlo, rendendosi conto che in cucina non c’era spazio per tutto quel ben di Dio, Catherine, Dagmar, Julian e anche per lui. Julian esitava, gli occhi fissi sulle uova. Stava pensando che avrebbe soprasseduto agli irritanti strepiti del bambino se si profilava un’omelette all’orizzonte.
Solo che Dagmar piombò sullo sgabello dritto davanti a lui issandosi Axel sulla spalla prima di lasciarlo ricadere in grembo. Poi, dopo aver sollevato la T-shirt, scoprì un seno e guidò la bocca del bambino verso il capezzolo.
— Con permesso, — disse Julian, lasciando le due donne a occuparsene.
Catherine si sedette sulla panca della cucina fissando lo sguardo assente nella scodella di porridge di Ben. Era talmente pulita e lucida che sembrava l’avesse leccata, anche se in tal caso immaginava che se ne sarebbe accorta. Lei, da parte sua, aveva la tendenza a stufarsi del cibo, lasciandolo a metà. Siccome a Roger per qualche motivo dava fastidio, nella casa di Londra Catherine aveva preso l’abitudine di nasconderlo, non appena le passava la voglia di mangiarlo, in qualunque angolino o ricettacolo le capitasse a tiro. Lo finirò dopo , si diceva, ma il mondo girava, girava, girava. Giorni, settimane dopo, bagel ossificati cadevano dalle tasche del cappotto, yogurt con una pelliccetta di muffa spuntavano dal portagioie, banane nere e semiliquefatte giacevano come cadaveri nella tomba delle sue scarpe.
Catherine si augurava di non fare altrettanto lì allo Château de Luth, anche se era un’eventualità da non scartare. Era facile che Roger passasse dopo di lei a pulire, tenendo la lingua a freno perché non erano soli. Altro che diventare matta; non sarà che le stava venendo l’Alzheimer? A quarantasette anni le sembrava abbastanza inverosimile… Eppure: con l’Alzheimer non si scende a patti… ti esenta da ogni colpa. Nessuno si sognerebbe di ricondurti alla ragione, né attenderebbe con impazienza che torni ad avere una vita sessuale. Non dovresti più prendere il Prozac, e se qualcuno trovasse un cumulo di mele mangiate a metà dietro il televisore, be’, capirebbe.
E, al momento di morire, non ti accorgeresti nemmeno di quello che succede. Un fremito distratto e ti ritroveresti all’altro mondo, sbattendo debolmente gli occhi alla luce dell’Onnipotente.
Catherine mise a fuoco il «Times Literary Supplement», ripulito da lei stessa del cibo che aveva riposto ordinatamente nel frigorifero e negli armadietti qualche minuto prima. Era aperto alla pagina delle lettere, e nove illustri accademici provenienti da ogni angolo della Gran Bretagna e degli Stati Uniti dibattevano l’identità della persona a cui erano dedicati i sonetti di Shakespeare, facendone indistintamente una questione personale. Dichiaro chiusa la corrispondenza sull’argomento , ammoniva il direttore, anche se dopo quattrocento e passa anni era ovvio che la discussione sui sonetti, al pari di qualunque discussione, sarebbe andata avanti all’infinito senza mai arrivare a una conclusione. Quanto a Catherine, non aveva un’opinione, se non che sposare nove uomini così avrebbe significato conoscere altrettante varianti dell’inferno.
— Mangiate pure tutto quello che vi pare, — disse Dagmar.
Catherine, che aveva dimenticato la presenza della ragazza tedesca, alzò gli occhi con un sobbalzo.
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