In ogni modo, ammesso che i nazisti fossero stati in quel bosco, il posto era perfetto per giustiziare qualcuno. Catherine si chiese cosa si provasse a essere presi in una retata, scortati fino al ciglio di una fossa comune, e fucilati. Cercò di provare pena per quelli che non desideravano morire: le donne con dei figli, magari. Ma riusciva a pensare solo che sarebbe stato provvidenziale liberarsi di quel peso delegando ad altri la decisione: a un nazista che ti conduca dalla menzogna alla tomba, dove ti sparerà un colpo dietro la nuca, un punto dove non arriveresti mai da sola.
Poi, a distanza di qualche anno, un Robin Hood francese e i suoi allegri compari passerebbero a cavallo sopra le tue ossa, agitando i gagliardetti colorati per la gioia di tutti i bambini europei.
Un quarto d’ora dopo, Catherine smise di camminare e si accovacciò contro il ramo muscoso di un cedro del Libano, sistemandosi comodamente sul giaciglio del bosco. Non si correvano rischi a poggiare il sedere — il culo? — sul terreno; sembrava progettato dagli scienziati dei Paesi Bassi per nutrire la vegetazione senza sporcare i pantaloni. Il calore del sole, propagato dalla cima degli alberi, le irradiò vitamina D nella pelle. Tutt’intorno, la fievole luce dorata guizzava sui verdi e i marroni, mentre le foglie esalavano ossigeno puro e fragrante.
Spesso i compositori traggono ispirazione dalla natura, pensò Catherine. La Sinfonia «Pastorale» di Beethoven, Vaughan Williams, Delius, quel genere di cose. Che significato aveva la natura per lei? Cercò di stabilirlo, come se quella domanda le fosse appena stata posta da Dio.
Natura significava assenza di persone. Era un sistema organizzato per funzionare senza esseri umani, concentrato sull’inanimato e l’eterno. Il che di tanto in tanto era molto rilassante. Ma pericoloso, alla lunga: sarebbe calato il buio, e non ci sarebbero state porte da chiudere, né tetti sopra la testa, né coperte da tirare su. In fondo non siamo animali.
Catherine si alzò in piedi levandosi le foglie e i frammenti di corteccia da dietro i jeans. Aveva avuto abbastanza natura per quel giorno. Era ora di tornare a casa.
Percorrendo a ritroso il sentiero che aveva creato, divenne consapevole di tutti gli uccelli che dovevano essere posati sugli alberi attorno e sopra di lei. Alcuni intonavano un cinguettio musicale, ma la stragrande maggioranza era silenziosa. La guardava. Catherine non sopportava quell’idea; si concentrò sul rumore prodotto dai piedi che frusciavano nel sottobosco.
Il respiro sempre più veloce risuonava incredibilmente alto nell’immobilità, e con l’accelerare del passo i respiri si fecero più simili a espressioni vocali, con un tono e un timbro tutti loro. Esattamente come il canto avanguardistico, in realtà: i vocalizzi di un’anima terrorizzata.
Ora stava quasi correndo, incespicando sui rami staccati e le zolle di terra che aveva calciato prima. Lo sfarfallio della luce solare era troppo veloce fra gli alberi, sembrava una fluorescenza che funzionava male, livida e fredda. Aveva di nuovo perso la cognizione del tempo? Mancava di casa da ore?
Cosa farebbe adesso se sentisse il grido?
Il pensiero giunse improvviso, come una freccia scoccata dritto nel cervello. Era sola nel bosco di Martinekerke con la cosa che le aveva indirizzato i suoi lamenti durante la notte. E che forse ora teneva gli occhi scintillanti fra gli alberi puntati su di lei. Aspettava il momento buono per lanciare di nuovo quel grido, aspettava che lei si avvicinasse a tentoni tanto da poterglielo urlare dritto nell’orecchio, nella nuca, facendola crollare sulle ginocchia in preda al panico. Catherine correva, piagnucolando angosciata. Avrebbe fatto la brava da lì in avanti, se solo Roger fosse andato a salvarla.
Senza fiato, parzialmente accecata, irruppe nella radura. Malgrado l’intensità del terrore le erano bastati un paio di minuti per lasciarsi il bosco alle spalle; non si era allontanata poi così tanto da casa, in fin dei conti. Il castello era proprio al di là della strada, e la piccola Peugeot bianca parcheggiata davanti dichiarava a chiare lettere l’implausibilità di urla soprannaturali.
— Bene, è l’ora del Partitum Mutante , — le disse Roger, non appena ebbe varcato la soglia.
Le prove andarono male quel giorno. Ben, Dagmar e Catherine erano abbastanza partecipi, mentre Roger era irascibile, stranamente turbato. Julian aveva la testa fra le nuvole e perdeva il segno sullo spartito alla minima distrazione: Gina che se ne andava, per esempio. La guardò dalle finestre linde e lucenti caricare l’attrezzatura in macchina, trascurando bellamente di inserirsi per cantare le parole del Creatore.
L’educato battibecco fra Julian e Roger grazie al cielo fu interrotto da un’altra telefonata. Era il giornalista di un quotidiano lussemburghese a caccia di un articolo sul Benelux Contemporary Music Festival.
I componenti del Coro che non erano Roger Courage si sedettero pigramente mentre Roger faceva fronte ai quesiti, il primo dei quali evidentemente fu perché il brano di Pino Fugazza si intitolasse Partitum Mutante. Era una delle tante domande che Catherine non aveva mai pensato di porre a Roger, perciò tese l’orecchio per sentire la risposta.
— Be’, il mio italiano è abbastanza elementare, — disse nel microfono coi toni ronzanti del gatto che fa le fusa, sottintendendo l’esatto contrario, — ma mi pare di capire che il titolo non è esattamente italiano, e nemmeno latino. È più una specie di gioco di parole che si muove su più livelli. Gioca su partita , naturalmente, nel senso di suite musicale, ma fa anche riferimento al partum , cioè alla nascita. Mutante perciò allude alla nascita mutante, o a una forma musicale mutante…
L’attenzione di Catherine vagò verso il bosco all’esterno. Un cervo pascolava a breve distanza dalla finestra. Era davvero di una bellezza sconvolgente là fuori, visto dall’interno. Doveva andare a passeggio nel bosco più spesso, affrontare le sue paure, smetterla di essere così infantile.
— Sono convinto che sia di estrema importanza dare agli esecutori di un brano commissionato per la prima volta un tempo ragionevole per le prove, — stava dicendo Roger al giornalista lussemburghese. — Troppo spesso andando alla première di un’opera vocale contemporanea si sentono i cantanti cavarsela, diciamo così, per il rotto della cuffia, con un brano che hanno appena imparato. È mancato il tempo per padroneggiarlo appieno, per coglierne inflessioni e sfumature. Non dimentichi che quando un gruppo vocale tradizionale canta il Messia di Händel o un brano altrettanto noto, in teoria potrebbe anche cantarlo nel sonno. Quello che noi del Coro Courage stiamo cercando di fare con il Partitum Mutante qui, in questo magnifico castello, è impararlo così bene da essere in grado di cantarlo nel sonno. È allora che si comincia davvero a lavorare.
Qualche attimo dopo, quando Roger si sedette con i colleghi del Coro dopo aver riattaccato il telefono, Catherine disse:
— Credevo che significasse slip.
Dagmar rise di cuore, allentando la tensione. Roger guardò la moglie come in fiduciosa attesa che recuperasse la ragione da un momento all’altro, se solo l’avesse fissata negli occhi con sufficiente intensità.
— Mutante , — spiegò Catherine. — Avrei giurato che significasse slip.
— Sono sicuro che ha a che fare con la mutazione, cara, — l’ammoni blandamente Roger, ruotando gli occhi da una parte all’altra per ricordarle che non erano soli nel loro appartamento. Ma lei non intendeva farsi liquidare tanto facilmente. Era stata in Italia soltanto l’anno prima, a cantare Dowland e Byrd. Lungo la strada, aveva fatto un po’ di shopping a Roma, elettrizzata e terrorizzata all’idea di non stare al guinzaglio di Roger per un’ora.
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