Michel Faber - A voce nuda

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A voce nuda: краткое содержание, описание и аннотация

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Un castello gotico nel bel mezzo di una foresta. Un gruppo di eccentrici musicisti alle prese con una partitura estremamente complicata e con la convivenza forzata. Le tensioni sessuali tra i membri del gruppo rivelano in realtà una più profonda, segreta nevrosi, resa ancor più minacciosa dalla clausura. E una donna fragile, alla deriva, è affascinata da strane urla nella notte... L’autore di “Il Petalo cremisi e il bianco” (2003) e di “Sotto la pelle” (2004) è nato in Olanda e cresciuto in Australia. Ora vive nelle Highlands scozzesi.

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Roger si andava richiudendo in un duro guscio di professionalità, uno stato in cui tendeva a cadere ogni volta che si avvicinava una scadenza. Questo non lo rendeva meno attraente: a Catherine piaceva di più in quel modo. Si concentrava unicamente sul compito che aveva davanti — nella fattispecie, il diabolico Partitum Mutante — facendo di tutto per cogliere la natura delle difficoltà incontrate dai colleghi cantanti, attento a non sprecare la loro preziosa energia o a non logorare i loro nervi scoperti. Anziché pretendere ripetizioni a non finire, si mostrava tollerante quando le cose non andavano per il verso giusto. «Non sprechiamo il fiato», li punzecchiava in tono serissimo ogni volta che si profilava una discussione. Poi, la sera, si stendeva sul letto escogitando vari sistemi per far sì che l’esecuzione successiva scorresse più liscia. A Catherine veniva quasi la tentazione di abbracciarlo quando lo vedeva così. Se fosse stata certa che rimanesse supino, gli avrebbe poggiato la testa sulla spalla e accarezzato la fronte accigliata.

Si domandava se Ben fosse felice. Era una montagna di compostezza, ma era felice? Ogni sera alle 11 in punto, si ritirava nella sua stanzetta, dove c’era un letto di sicuro non abbastanza grande per lui. Come faceva a stare comodo? Gli mancava sua moglie? Il suo corpo, in posizione orizzontale, risultava di una pesantezza intollerabile, come gravato dal peso sgradito di un’altra persona?

Prima di quelle due settimane a Martinekerke, a Catherine non sarebbe mai venuto in mente di farsi certe domande. Ogni componente del Coro aveva una vita propria e a sé stante, misteriosa per gli altri. La felicità o l’infelicità personale non avevano niente a che vedere con lo scopo che li aveva fatti aggregare — almeno, in passato era sempre stato così. Si riunivano a casa dei Lamb a Tufnell Park, come cinque tifosi di calcio che si siedono davanti al televisore per guardare la partita e, senza quasi scambiarsi una parola, attaccavano a cantare un Miserere di Josquin o quello che c’era in programma. La moglie di Ben si dileguava, ritirandosi in cucina a preparare quelle che dall’odore sembravano quantità spropositate di cibo asiatico. In tutti gli anni che il Coro aveva trascorso così, Catherine non era nemmeno andata vicina a chiedere di quale nazionalità fosse la signora Lamb. Sembrava vietnamita o qualcosa del genere, e si vestiva come una tricologa americana. Durante gli intervalli, serviva agli ospiti torte e caffè: fette di mela e cannella abilmente impregnate con strani aromi di gamberetti, curcuma, aglio, salsa di soia. Certe volte Catherine moriva dalla voglia di fare a Ben qualche domanda sulla moglie, ma col trascorrere degli anni aveva sempre più la sensazione di aver sprecato il momento buono per sollevare l’argomento.

Julian era un altro enigma, anche se tutto lasciava intendere che ispirasse sentimenti contrastanti non solo nei colleghi cantanti. Una volta, mentre il Coro provava a casa dei Lamb, un ubriaco, sbraitando insulti incomprensibili, aveva ammaccato a suon di calci la macchina di Julian parcheggiata all’esterno. Julian, sbiancato, si era seduto aspettando stoicamente mentre il ca-ratteristico bimff del parabrezza che andava in frantumi risuonava nell’aria serale. Anche in quel caso, nessuno del Coro Courage aveva fatto domande. Le attività extra-musicali di Julian erano affar suo. Non c’era un tenore capace di tenergli testa in tutta l’Inghilterra, questo e nient’altro contava.

Perfino le fragilità mentali di Catherine venivano tollerate, purché non interferissero con la musica. L’anno precedente era arrivata al punto di presentarsi alle prove con i polsi avvolti in bende di un bianco niveo, e nessuno ne aveva fatto parola. Per contro, se osava trascorrere qualche minuto di troppo nei bagni di Heathrow quando il Coro doveva prendere un aereo, era facile che si sentisse perentoriamente chiamare dagli altoparlanti dell’aeroporto.

Quanto a Dagmar, l’ultimo acquisto del gruppo, aveva aderito al Coro Courage perché non le dava il tormento come molti altri ai quali si era legata in precedenza. Dopo aver piantato in asso il Dresden Staatsoper perché i direttori sembravano convinti che fosse un tipo di costumi troppo facili per cantare l’opera (l’ultimo ruolo che aveva interpretato per loro era stato quello della prostituta Lulu di Berg, santo Iddio!), quegli inglesi così sorridenti le avevano ispirato una certa diffidenza, ma era andato tutto per il meglio. Avevano chiuso un occhio sui suoi amori tempestosi e perfino sulla gravidanza illegittima, purché si presentasse in orario, e questo non le creava nessun problema. Nei nove mesi in cui aveva avuto il pancione non aveva saltato una sola prova; e si era fatta scrupolo di partorire nel momento di stasi tra le Adventures di Ligeti a Basilea e il concerto natalizio di canti sacri e profani a Huddersfield. Roger Courage non ci aveva trovato niente da ridire, e le aveva mandato un biglietto di felicitazioni di estremo buon gusto senza indagare sul nome e il sesso del nascituro.

Quelle strane due settimane a Martinekerke, però, li stavano rendendo tanto più reali come esseri umani agli occhi degli altri, almeno secondo Catherine. Vivere insieme come una famiglia, cucinare per gli altri, vedere la barba spuntare sulla faccia degli altri — be’, non sulla sua, naturalmente — veder crescere perfino i capelli… Catherine trovava tutto molto elettrizzante. Era perfino sicura che, prima dello spirare delle due settimane, avrebbe chiesto a Ben di sua moglie, o sarebbe arrivata in bicicletta fino a Duidermonde.

Aveva l’impressione, però, che Julian non fosse una persona felice. Col trascorrere dei giorni allo Château de Luth, diventava sempre più irrequieto. Non irrequieto nel senso che non riusciva a concentrarsi sul compito che aveva davanti; al pari di tutti gli altri componenti del Coro, lavorava sodo al Partitum Mutante. Non irrequieto nel senso che non stava nella pelle per il bisogno di fare moto; era felicissimo di lasciare che Dagmar e Catherine andassero tutti i giorni in bici a Martinekerke a fare provviste. No, sembrava irrequieto sul piano sessuale.

A Londra Julian era un lupo solitario, non girava mai accompagnato. Roger e Catherine avevano sempre pensato che fosse omosessuale, con quel Freddy Mercury sulla segreteria telefonica e i commenti al vetriolo che non lesinava mai a nessuno; invece a Martinekerke divenne chiaro che, se non aveva niente di meglio sottomano, era quantomeno disposto ad accontentarsi delle donne.

Il bosco forniva donne in quantità limitata, ma Julian sfruttava al meglio quanto gli si parava sul cammino. La prima volta che Gina era andata a pulire il castello, Julian si era comportato (commentarono in seguito Roger e Catherine) come il galante proprietario della tenuta che accolga un ospite facilmente impressionabile. Vedendo quella tecnica di abbordaggio vanificata dal netto rifiuto della ragazza a lasciargli portare la sua attrezzatura, era corso in casa a varare il Piano B, delegando a Roger le presentazioni formali. Quando, meno di due minuti dopo, era arrivato il momento di presentare Gina a Julian Hind, «il nostro tenore», lui era già piazzato al pianoforte a suonare un brano del Mikrokosmos di Bartók con serena intensità. Aveva rivolto gli zigomi verso la ragazza inarcando le sopracciglia, come se non l’avesse mai vista prima di quel momento, come se fosse appena capitata, ingenuamente, in un tempio di cui non poteva certo capire la sacralità. Aveva inclinato la testa in un indulgente benvenuto, senza però dire una parola. La cosa deludente era che nemmeno Gina aveva aperto bocca, preferendo mettersi subito all’opera. La spina dell’aspirapolvere annidata nella mano, aveva frugato per la stanza mormorando fra sé: «Stopcontact, stopcontact» — evidentemente era la parola olandese per presa di corrente. Non appena l’aspirapolvere aveva avviato il suo rumoroso risucchio, Julian aveva smesso di suonare il piano predisponendosi a un ruolo più passivo. A quel punto, troppo presto, Catherine era tornata dalla passeggiata nel bosco, e bisognava dedicarsi al Partitum Mutante.

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