Michel Faber - A voce nuda

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A voce nuda: краткое содержание, описание и аннотация

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Un castello gotico nel bel mezzo di una foresta. Un gruppo di eccentrici musicisti alle prese con una partitura estremamente complicata e con la convivenza forzata. Le tensioni sessuali tra i membri del gruppo rivelano in realtà una più profonda, segreta nevrosi, resa ancor più minacciosa dalla clausura. E una donna fragile, alla deriva, è affascinata da strane urla nella notte... L’autore di “Il Petalo cremisi e il bianco” (2003) e di “Sotto la pelle” (2004) è nato in Olanda e cresciuto in Australia. Ora vive nelle Highlands scozzesi.

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— Sì, ma ricorda niente del brano di Fugazza? — insistette Roger.

Il direttore si accigliò: per lui, indugiare su eventi musicali relegati al passato anziché proiettati verso il futuro era ovviamente quanto di più innaturale.

— Ricordo solo il pubblico, — ammise, — che è rimasto seduto lì per quattro ore a sentire canti e bisbigli e rumori che erompevano senza preavviso, finché tutto tace, e loro non sanno se è il momento di applaudire, dopodiché se ne vanno a casa.

Roger si stava lasciando prendere da un’educata esasperazione.

— Be’… se non ha sentito il Partitum Mutante , che cosa le fa credere che sarà molto meglio?

Jan agitò mollemente una manciata di dita intorno alla tempia destra.

— Da allora ha avuto un grosso tracollo mentale, — disse. — Questa può essere un’ottima cosa per la musica. E poi, l’interesse pubblico per Fugazza è notevolissimo, il che è ottimo per le vendite al botteghino. È molto famoso presso la stampa italiana per aver aggredito la moglie con una scarpa dal tacco a spillo al ritiro bagagli dell’aeroporto di Milano.

— No! — fece Catherine incredula. — E ora lei come sta?

— Benissimo. Credo che presto sarà una divorziata piena di soldi. Ma, naturalmente, è la qualità della musica a decretarne il valore.

— Naturalmente, — sospirò Roger.

Più tardi, quando il direttore se ne fu andato, Roger rimase alla finestra a guardare il minibus giallo rimpicciolire in lontananza sul lungo nastro d’asfalto nero che conduceva a Bruxelles. Nel frattempo, il sole splendeva sui vetri della finestra come un riflettore da un milione di watt, rendendo bianchi i capelli d’argento e la carne il colore di una mela sbucciata. Ogni ruga e grinza venute con l’età, ogni minuscola cicatrice e buchetto risalenti all’adolescenza, erano illuminati e implacabilmente definiti. Alla fine la luce si fece troppo intensa per lui; che si allontanò, esausto, sbattendo gli occhi e asciugandoseli.

Accorgendosi che Ben Lamb era ancora seduto nell’angolo in ombra della stanza, e che Catherine sonnecchiava tutta sudata sul divano, si sbottonò sul dubbio che lo attanagliava circa il valore del progetto in cui si erano impegnati.

— Sai, sono veramente stufo di tutto questo fascino che dovrebbe esercitare la pazzia, tu no? — disse, rivolto a Ben. — Sono quei segnetti sullo spartito che dovrebbero avere qualcosa di sensazionale, non il comportamento di qualche italiano svitato all’aeroporto.

Catherine, che non gradiva tanta mancanza di rispetto nel trattare l’argomento follia, ribatté:

— Non sarà che questo Pino è semplicemente giovane e impetuoso? Io non mi arrogherei mai il diritto di dare del matto a qualcuno. Soprattutto a un italiano che ho visto una sola volta. Di sicuro non sarà tanto squinternato se guida una Porsche e veste Armani.

— Una visione molto poetica, cara… anche se la logica risulta un po’ oscura, — osservò Roger.

— No, volevo dire che ovviamente non è… um… di un altro mondo, no?

Ci fu una pausa durante la quale i due uomini meditarono sul significato di quell’espressione.

— Tu che ne pensi, Ben? — chiese Roger.

— Penso che dovremmo cantare quanto più possibile nei prossimi quattro giorni, — rispose lui. — Così, al momento della prima, avremo se non altro la certezza di essere meno confusi del signor Fugazza.

♫♫

E così cantarono, mentre il sole risplendeva in cielo e la temperatura all’interno del castello si inerpicava verso i 30 gradi. Era peggio che stare sotto un intero impianto di luci di scena; tutti e cinque bollivano dentro i vestiti.

— Finiremo per cantare nudi, — suggerì Julian. — Così metteremmo un po’ di sensualità in questo brano!

Gli altri lasciarono correre, capendo che il poveretto era in calore.

Quando, alla fine, furono tutti troppo stanchi per proseguire, Roger e Julian andarono a letto — non insieme, naturalmente, anche se negli ultimi tempi Julian dava l’impressione di considerare chiunque, perfino i compagni di Coro, come un possibile oggetto sessuale. Il disgusto che aveva provato sulle prime vedendo Dagmar allattare, col trascorrere dei giorni si era stemperato in una sorta di tolleranza, salvo poi inasprirsi in una forma di curiosità così acuta da mettere in imbarazzo tutti fuorché lui. Dagmar, di norma indifferente alle misere brame di uomini indesiderati, si sentiva sempre più a disagio, e l’allattamento divenne un atto via via più segreto, perpetrato al riparo di porte chiuse. In presenza di Julian, tendeva a incrociare le braccia sul petto, in un gesto protettivo, aggressivo. Dopo una mezz’ora passata a fissare Julian per fargli abbassare lo sguardo, balzava in piedi e si metteva a camminare su e giù, una fascia scura sul petto dove gli avambracci sudati avevano inzuppato la stoffa dei vestiti che indossava.

La sera della visita del direttore, dopo aver finito con il Partitum Mutante ed essersi assicurata che Julian fosse andato a letto, Dagmar si sbracò sul divano con Axel attaccato al seno. Ben era seduto vicino alla finestra a fissare un cielo che, alle undici meno un quarto, serbava ancora qualche brandello di luce. Stava calando di nuovo quel silenzio soprannaturale, che dal salotto permetteva di sentire perfino il gocciolio di un rubinetto in cucina.

Stranamente ringalluzzita dopo che il figlio le aveva succhiato il latte, Dagmar decise di portare Axel a fare una passeggiata nel bosco. Non invitò Catherine; la donna più anziana immaginò che dovesse essere uno di quei momenti in cui Dagmar voleva scorrazzare per il mondo sola con il suo piccino, spiegandogli le cose in tedesco.

— Sta’ attenta, — disse Catherine mentre uscivano. — Ricordati della leggenda.

— Quale leggenda?

— Una volta una madre e il figlioletto sono spariti in quel bosco, alla fine della guerra. Certi dicono che il bambino sia ancora là fuori.

Dagmar si soffermò un attimo a fare un calcolo mentale.

— Be’, se dovessimo incontrare un bambino di settantacinque anni lungo la strada, magari Axel sarà contento di giocare con lui, — disse, e se ne andò a zonzo nel buio.

Rimasta sola con Ben, Catherine valutò i pro e i contro di andare a letto. Sul versante dei pro, era esausta. Ma la casa aveva assorbito tanto di quel calore che probabilmente non sarebbe riuscita a dormire.

— Vuoi qualcosa, Ben? — gli chiese.

— Mm? No, grazie, — rispose lui. Era ancora seduto vicino alla finestra, la camicia bianca resa quasi trasparente dal sudore. Nonostante la stazza da orso, non aveva peli sul corpo, per quanto le era dato vedere.

— A proposito, come stai? — gli chiese. Sembrava una domanda leggermente assurda a quell’ora di sera.

— Stanco, — disse lui.

— Anch’io. Non è strano che abbiamo vissuto qui insieme, giorno dopo giorno, e abbiamo cantato insieme all’infinito senza quasi scambiare una parola?

— Io non sono un gran conversatore.

Ben chiuse gli occhi poggiando la testa all’indietro, come se stesse per liberare l’anima nell’etere, lasciandosi dietro il corpo.

— Sai, — disse Catherine, — dopo tanti anni non so quasi niente di te.

— C’è ben poco da dire.

— Non so nemmeno esattamente di che nazionalità è tua moglie.

— Vietnamita.

— Lo immaginavo.

A quel punto la comunicazione si spense, ma senza dar adito a imbarazzo. L’acustica emotiva della stanza non era satura di vergogna e frustrazione, come nei silenzi fra lei e Roger. Il silenzio era una condizione naturale per Ben, e piombarci dentro insieme a lui era come raggiungerlo nel suo mondo, dove conosceva intimamente ogni onda sonora assopita, dov’era immune da paure.

Dopo un po’, seduta nell’immobilità del salotto oro e marrone insieme a Ben, Catherine diede un’occhiata all’orologio che lui aveva al polso. Mancava poco a mezzanotte. Ben non era mai stato in piedi così a lungo.

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