— Non è che potrebbe metterlo in bocca? — suggerì il fotografo.
— Se lo può scordare, — disse Dagmar, scagliando lo strumento sul cuscino del divano.
— Non c’è un pianoforte a coda? — ribatté il fotografo, con la rapidità di un lampo. Di sicuro non avrebbe avuto obiezioni ad appoggiarsi al piano e giocherellare con le corde, con il coperchio a farle scudo.
— No, è… — La parola che Dagmar cercava non voleva saperne di tradursi dal tedesco. Considerò l’eventualità di dire «eretto», ma subito la declinò. — Non è a coda, — disse, gli occhioni stretti in una fessura.
Imperterrito, il fotografo diede un’occhiata fuori per valutare le condizioni atmosferiche. Per fortuna, da un qualche punto della casa si levò il rumore sonoro di un grido umano sconsolato che non poteva essere ignorato.
— Mi scusi, — borbottò Dagmar, allontanandosi a gran passi in cerca del figlio.
Il fotografo spostò immediatamente l’attenzione su Catherine.
— È vero, — disse, raccogliendo il bicchiere di succo mezzo vuoto di Dagmar, — che un soprano è capace di mandare il cristallo in frantumi?
Quella sera, quando finirono di cantare, il castello era ancora più infuocato della sera precedente. Tutti gli altri andarono a letto, e Catherine si ritrovò da sola in salotto con Julian.
Julian era a quattro zampe davanti a una libreria, a sbirciare il dorso dei libri. Aveva finito tutto quello che si era portato in Belgio, tutti i thriller e le biografie scandalistiche, e adesso andava in cerca di qualcos’altro. Ignorando l’olandese, i tomi come Het Leven en Werk van Cipriano de Rore (1516-1565) non facevano al caso suo, anche se conosceva a menadito il francese e — cosa che sorprese Catherine — il latino.
— Davvero? Il latino? — disse, come se le avesse appena rivelato di cavarsela benissimo con l’urdu o il cingalese.
— Non capisco perché ti stupisci tanto, — disse Julian, con il sedere — il culo? — le chiappe? — per aria mentre esaminava i titoli. — Non facciamo che cantare testi latini.
— Sì, ma… — Catherine risalì mentalmente all’ultima volta che aveva cantato in latino, e la sorprese con quanta facilità ricordasse le parole di O Magnum Mysterium di Gabrieli. Ultimamente stava capitando qualcosa al suo cervello, si stavano sbloccando i canali, ridefinendo i contorni. — Usiamo le traduzioni. Io almeno le uso. Roger mi stampa il testo inglese affiancato da quello latino, è così che imparo il significato.
— Io non ho bisogno che Roger mi dica che cosa significa, — borbottò Julian sfilando un volume dall’aria antica dalla libreria. Gli scivolò agilmente fra le mani, senza la nuvola di polvere che Catherine si aspettava — ma del resto, Gina aveva spolverato solo qualche giorno prima.
— Credo che andrò a fare due passi, — disse Catherine.
— Ecco, brava, vai, — disse Julian. Mostrava un’inquietudine strana, profonda, come se avesse oltrepassato la frustrazione per approdare a quello che veniva dopo. Seduto a gambe incrociate sul tappeto, stava aprendo il fragile libro antico che aveva in grembo con la testa china sulle pagine color crema, gli umidi capelli neri che oscillavano sulla fronte. Catherine non avrebbe saputo spiegare perché quella scena le dava tanto sui nervi, stimolando in lei un istinto di fuga.
Roger, però, doveva essere ancora sveglio nella camera da letto al piano di sopra. Roger, Julian e il bosco buio di Martinekerke: si trattava di scegliere fra un diavolo, un altro diavolo, e un’acqua tutt’altro che santa.
Catherine uscì nella notte con la T-shirt e una giacca a vento poggiata sulle spalle e soltanto una piccola torcia a guidarla nel buio. Non l’accese nemmeno, lasciandola nella tasca posteriore dei jeans nella speranza che gli occhi si abituassero alla luce delle stelle, cosa che evidentemente succedeva a persone come Dagmar.
Attraversando la strada, il tatto e l’udito, non sorretti dalla vista, le dissero che i piedi abbandonavano l’asfalto liscio per approdare ai margini fogliosi del bosco. Avanzò cautamente trascinando il passo, affidando all’aura corporale il compito di segnalarle l’approssimarsi degli alberi. Su in alto, il cielo restava nero; forse quella fastidiosissima umidità indicava che era nuvoloso.
Sfilò la torcia di tasca indirizzando il sottile raggio sul terreno davanti a sé. Un cerchietto di foglie e terra emerse dall’oscurità come l’immagine su uno schermo televisivo. Inclinando il polso si spostò, guizzando avanti e indietro fra gli alberi, facendosi via via più tenue. Dopo appena trenta secondi di utilizzo, la batteria della torcia era già stanca; quella minima scorta di energia non poteva sostenere la sfida di un intero bosco immerso nella notte. Catherine la spense augurandosi che andasse tutto per il meglio.
Lo sai perché sei qui, vero? la sfidò una voce dentro di lei. Ma non ebbe paura: era la sua voce, intima e paziente, non la straniera terrificante che una volta le aveva ordinato di ingoiare il veleno o di tagliarsi la carne dei polsi. Era semplicemente una piccola, innocua conversazione interna, fra Catherine e se stessa.
No, dimmelo, perché sono qui? chiese lei di rimando.
Stai aspettando quel grido , fu la risposta.
Si addentrò ulteriormente nel bosco, impaurita e impenitente. Un venticello sussurrava fra gli alberi, una vera benedizione dopo il calore stagnante intrappolato all’interno della casa. Stava solo prendendo una boccata d’aria fresca, tutto qui. I fantasmi non esistono: alla luce del giorno, un fantasma avrebbe immancabilmente rivelato di essere un gufo, o un lupo, o tuo padre sulla soglia della tua camera da letto, o una busta di plastica impigliata in un ramo, agitata dal vento. I morti restano morti. I vivi devono tirare avanti, senza aiuto né intralci da parte del mondo degli spiriti.
Gli occhi di Catherine si erano ormai abituati al buio, e scorgeva i rami degli alberi attorno a sé, nonché una vaga immagine del terreno sotto i piedi. Stanca di perdersi ma desiderosa di trattenersi ancora nel bosco, girava in cerchio, senza perdere di vista le remote luci dorate della casa. Sbatteva i palmi contro gli alberi oltrepassandoli, ruotandoci attorno come una bambina con i pali, le mani deliziate dalla scabrosità della corteccia.
Una mezz’ora dopo si accorse che le scoppiava la vescica — tutti quei bicchieri di succo di frutta! — e si accovacciò su una radura a fare pipì. L’urina frusciava tra le foglie, e qualcosa di non meglio identificato sfregava dolcemente contro il sedere nudo.
Speriamo che non mi salti niente dentro mentre sono così esposta , pensò, e intanto, nel castello, le luci si spegnevano.
La mattina dopo Ben Lamb, che aspettava l’ havermout , alzò lo sguardo speranzoso sentendo entrare qualcuno in cucina. Ma era solo Julian, che andava a prendere il caffè.
— Ho fatto una scoperta sensazionale ieri sera, — disse Julian, mentre il bollitore lanciava un fischio indolente.
— Mm? — fece Ben.
— Un’edizione originale delle canzoni di Massenet, stampata nel 1897, e ne include alcune che di sicuro non hanno mai visto la luce del giorno; stava proprio lì, poggiata sullo scaffale. Nessuno l’ha mai degnata di uno sguardo!
— Come fai a saperlo?
— Le pagine erano ancora intonse. Ma ci pensi? Totalmente… vergine!
— E tu lei hai tagliate, Julian?
— Ci puoi scommettere, — disse Julian, con un sorriso a trentadue denti. — Ed è stata una sensazione magnifica, te l’assicuro —. Stava sbirciando nel frigorifero quando Dagmar, vestita di tutto punto e con Axel già nello zaino, passò davanti alla cucina.
— Sei pregato di lasciare qualche uovo per gli altri, — gli urlò da sopra la spalla.
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