Julian contorse il viso in un ghigno malefico rivolto a Dagmar, che nel frattempo usciva sbattendo la porta.
— Jawohl, mein Kommandant!
Ben sospirò. Il Coro Courage era vicino al limite della sua capacità di coesistere in armonia, quantomeno in una casa che sembrava una sauna. Erano solo le 10.30 del mattino e già si soffocava; non erano certo le condizioni ideali per superare gli insidiosi labirinti vocali tracciati per loro dal signor Fugazza. Stando a un numero di importazione del «Times» che Dagmar aveva preso a Martinekerke il giorno precedente, Londra e dintorni erano sferzati da una pioggia battente: quando si sarebbero decise quelle nuvole ad arrivare anche laggiù?
Roger entrò in cucina, reduce da un’altra telefonata.
— Wim Waafels, l’artista video, viene qui oggi pomeriggio, — disse con aria mesta.
— C’è qualche problema? — si informò Ben.
Roger si passò le dita fra i capelli, due grosse chiazze di sudore che già gli scurivano la camicia in corrispondenza delle ascelle mentre cercava un modo per sintetizzare i suoi motivi di apprensione.
— Per dirla in due parole, ho idea che Dagmar non stravederà per lui, — disse alla fine.
— Oooh, — sbottò Julian con fare teatrale, — sai che novità! Ho trovato l’anima gemella. Non sai mai le fortune che ti riserva un grande bosco.
Roger si trascinò verso il forno, stanco di tenere insieme la sua famigliola, giorno dopo giorno. Si versò una tazza di tè dal bollitore che era rimasto trascurato sul fuoco.
— Qualcuno ha visto il nostro soprano? — chiese, cercando di non alterare la voce.
Ben scosse la testa. Julian lo guardò dritto in faccia, e vide uno sguardo che gli veniva particolarmente facile riconoscere: quello di un uomo che si chiede dove la moglie abbia passato la notte.
— È andata a fare due passi, — disse Julian. — Dopo l’ora delle streghe.
Roger sorseggiò il tè, un uomo infelice.
Poi, qualche minuto dopo, la porta d’ingresso si aprì rumorosamente e si sentirono risuonare dei passi nell’ingresso. Julian indurì la mascella aspettandosi un’altra invasione tedesca.
Invece, Catherine entrò in cucina. Camminava lentamente, con aria sognante, senza fretta di dedicare la sua attenzione agli uomini. I capelli arruffati erano un nido d’uccelli, la pelle colorita, gli occhi socchiusi. Minuscole foglie e pezzetti di ramo erano rimasti attaccati ai polpacci dei fuseaux.
— Ti senti bene, Kate? — chiese Roger.
Catherine sbatté gli occhi, accorgendosi per gradi dell’esistenza del marito.
— Sì, sì, certo, — rispose in tono spensierato. — Sono andata a fare una passeggiata, tutto qui.
Raggiunse il forno con passo felpato, dando dei colpetti alla spalla del marito nel passargli accanto, perché il poveretto aveva un’aria così sconsolata.
— Qualcuno vuole un po’ di porridge? — chiese, trovando la faccia di Ben esattamente dove si aspettava che fosse e contemplandola con un sorriso.
Benché ci fossero due ore da ammazzare prima dell’arrivo di Wim Waafels, il Coro non cantò. Per tacito accordo, stavano concedendo un po’ di riposo al Partitum Mutante mentre il tempo si esprimeva al peggio. Ben sedeva accanto alla finestra cercando di farsi passare il mal di testa e l’indigestione; gli altri ciondolavano per casa, gingillandosi con strumenti musicali, libri e accessori vari. Julian suonava Für Elise di Beethoven al piano, a ripetizione, inceppandosi sempre allo stesso punto; Catherine, accovacciata vicino all’arcolaio, tastava le varie parti con fare esitante, cercando di capire se funzionava o era solo ornamentale. Roger, seduto al computer, dava una scorsa allo spartito del 2K + 5 di Paco Barrios, ricordando a se stesso che la vita sarebbe continuata dopo il Partitum Mutante.
All’ora prevista per l’arrivo del signor Waafels, i componenti inglesi del Coro Courage — sempre per tacito accordo — si erano riuniti, decisi a prendere con filosofia quella visita e gli eventuali esiti. Solo Dagmar non si uniformava allo spirito imperante. Qualcosa nei modi di Roger la induceva a sospettare che qualcuno fosse sul punto di far vibrare le corde eccessivamente tese della sua sopportazione.
— Hai parlato con questo tizio, vero? — si informò con circospezione.
— Al telefono, sì, — disse Roger.
— È uno sciroccato?
— No, no… — la rassicurò Roger in tono vivace. — A sentirlo sembra… uno che sa il fatto suo, davvero.
— Insomma è un tipo a posto?
— Ha… ha un forte accento olandese. Molto più di Jan van Hoeidonck, per esempio. È giovanissimo, da quanto ho capito. Dovrebbe avere la tua età. Non è un vecchio parruccone come noi, eh, eh, eh.
Dagmar strinse gli occhi con disprezzo. Aveva sempre nutrito grande rispetto per Roger Courage, ma in quel momento le ricordava i direttori del Dresden Staatsoper.
Si udì un veicolo avvicinarsi allo Château de Luth, benché fosse a mezzo miglio di distanza, invisibile.
— Dev’essere lui, — disse Roger, defilandosi elegantemente da Dagmar per piazzarsi alla finestra. Ma quando il veicolo divenne visibile, rivelò di non essere un furgoncino né una macchina, bensì una motocicletta, che rombava attraverso l’immobilità del bosco di Martinekerke in una caligine di benzina, il conducente bardato di pelle grigia, guanti tempestati di borchie e casco argentato, come un soldato medievale in cerca di Thierry la Fronde e della sua banda di allegri compari.
Quando l’ebbero invitato ad accomodarsi, Wim Waafels si rivelò, almeno dal punto di vista fisico, un esemplare leggermente più impressionante di Pino Fugazza; ma del resto c’era da aspettarselo. Una volta di più, mentre si levava il casco e la giacca di pelle nel salone del castello, vari componenti del Coro Courage meditarono fra sé sull’infinita portata della bruttezza umana.
Era un giovanotto — venticinque anni, per sua stessa ammissione, anche se ne dimostrava diciassette — con una goffa postura da adolescente sovrappeso. Indossava pantaloni a coste color ocra, scarponi militari e una T-shirt smisurata e logora con sopra impresso l’ingrandimento di un fotogramma tratto da Un Chien Andalou di Buñuel: la lama del rasoio che incombe sull’occhio della donna. Gli occhi di Waafels, quelli, erano iniettati di sangue e affossati, e sprizzavano un’intelligenza schietta ma alquanto settoriale. Il sudore e qualche brufolo luccicavano sul faccione simile a una zucca; la testa era sormontata da un cespuglio di capelli quasi incolore scolpiti con il gel.
— Ehm… si sente più caldo o più fresco a guidare una motocicletta? — chiese Catherine, sforzandosi di fare conversazione mentre gli porgeva un grosso bicchiere di succo d’arancia.
— Tutti e tue, — rispose lui.
Pur provvisto di un buon vocabolario, Wim aveva un accento così pronunciato che sembrava aver imparato la lingua servendosi di tecniche completamente diverse rispetto a quelle adottate dagli altri olandesi che avevano conosciuto — CD rom interattivi, forse, o quei marchingegni per tradurre fotografati sugli opuscoli che cadono aprendo il «Radio Times».
Più preoccupanti dell’accento erano il rossore e il balbettio che lo colsero quando gli presentarono Dagmar: evidentemente aveva un debole per le giovani tedesche muscolose e con il seno grande, anche se non si mostravano particolarmente amichevoli. Forse aveva scambiato lo sguardo in cagnesco di Dagmar per il broncio finto pericoloso delle pupattole di Mtv.
— Ciao, zono Wim, — le disse.
— Magnifico. Vediamo il video, — disse Dagmar.
Esaurite le insulsaggini, si misero prontamente al lavoro. Wim aveva portato con sé un video delle sue immagini per il Partitum Mutante. Sul dorso della cassetta, aveva scarabocchiato con un pennarello argentato « PArTiTEm M! » Questo, ancor più dell’aspetto del signor Waafels, fece suonare il campanello d’allarme nei crani surriscaldati del Coro Courage.
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