Julian era rintanato in camera sua, sicuramente per evitare di riprendere le ostilità della sera precedente con Roger sulla questione Waafels. Roger non aveva gradito il sarcasmo di Julian, convinto che se Waafels ci fosse rimasto male avrebbe pensato che Julian parlasse a nome di tutto il Coro Courage; Julian aveva ribattuto che sperava bene di parlare a nome di tutto il Coro Courage, e se Roger era tanto entusiasta di cantare dentro un paio di labbra grosse come la porta di un fienile faceva meglio a dirlo subito chiaro e tondo.
Sulla scia di quella lite, si era prodotto un curioso mutamento nell’atmosfera del castello, da un punto di vista sonico. Julian aveva sottratto il televisore al pubblico dominio e l’aveva portato a braccia al piano di sopra, sostenendo che se doveva sopportare un’altra notte insonne gli serviva qualcosa che gli impedisse di dare i numeri. E, in effetti, a mezzanotte Catherine aveva sentito, dal proprio letto, i suoni attutiti di litigate e tenere riconciliazioni olandesi al di là della parete. Era un cambiamento rispetto al silenzio arcano, ma non necessariamente gradito.
Quella mattina, pur non sentendo alcun suono televisivo riconoscibile filtrare fino alla cucina, Catherine aveva la sensazione che con tutta probabilità la tv stesse ancora blaterando nelle orecchie di Julian in camera sua, perché il silenzio sembrava in qualche modo privato della sua purezza. C’era un brusio impercettibile, l’equivalente sonoro della caligine che si leva da una fetta di pane bruciato, a offuscare l’accesso di Catherine all’immensità acustica del bosco. Sentiva il bisogno di precipitarsi là fuori, lasciandosi quella caligine alle spalle.
Peccato che Dagmar non volesse andare a fare un giro in bici. Con l’aria di chi non ne può più e ha dormito poco, entrò in cucina senza altro scopo evidente se non quello di controllare che Julian non avesse toccato le uova nel frigo.
— Mi si stanno spaccando i capezzoli, — brontolò, facendo arrossire fino alle orecchie Ben chino sull’ havermout dietro di lei. — Prima uno era ancora passabile, adesso nemmeno quello. Oggi deve piovere… deve, deve, deve. E non capisco perché avete lasciato andar via quel coglione di Wim Waafels senza rompergli il grugno.
Stufa di saltare di palo in frasca, sbatté lo sportello del frigorifero e uscì dalla cucina pestando i piedi.
Catherine e Ben rimasero seduti in silenzio sentendo che Dagmar tendeva un’imboscata a Roger nella stanza accanto mettendosi a litigare con lui. La voce della ragazza tedesca arrivava forte e chiara, un rabbioso contralto di penetrante musicalità. Il baritono di Roger era più attutito, le dolenti parole di difesa perdevano parte della chiarezza passando attraverso le pareti.
— Non si è mai ventilata l’ipotesi, — stava dicendo, — di una scelta da parte nostra…
— Io sono una cantante, — gli ricordò Dagmar. — Non una bambola per il sollazzo di qualche sciroccato.
Il ronzio ragionevole della voce di Roger: —…evento multimediale… noi siamo solo uno di quei media… problema con tutte le collaborazioni… compromesso… non sono cattolico, eppure canto gli accompagnamenti alla messa latina…
— Ci risiamo, mi sembra di essere tornata al Dresden Staatsoper!
E andarono avanti, finché gli ascoltatori smisero di far caso alle parole. Catherine e Ben lasciarono invece che il suono delle voci dei litiganti sciabordasse in sottofondo, una congerie avanguardistica di Sprechstimme.
Poco dopo ecco scendere Julian che, sentito odore di sangue, lasciò perdere caffè e pane tostato per unirsi alla rissa.
Per Roger era troppo: temendo colpi bassi, convocò una riunione del Coro al gran completo, e i cinque si sedettero nel salone, dove avevano cantato senza posa il Partitum Mutante , a bisticciare.
— Se vogliamo evitare di prendere altre fregature come questa in futuro, — dichiarò Julian, — l’unica è diventare proibitivi per le tasche dei matti.
— Si può sapere che intendi dire, Julian? — sospirò Roger.
— Cantare un repertorio molto più popolare e imporre prezzi più alti sui biglietti. Fare più registrazioni, rendere le nostre belle facce note a cani e porci. Così, quando ci offrono un incarico, possiamo scegliere. E conservare una specie di diritto di veto. Niente trafficanti d’armi italiani, niente invasati di ginecologia.
— Ma, — disse Roger trasalendo, — la nostra forza non è sempre stata nel nostro coraggio? Cioè, nella nostra… um… disponibilità a mostrarci aperti verso le novità?
Catherine si lasciò sfuggire una risatina, ripensando alla vulva spalancata che aspettava solo di «affolcerli».
— Forse Kate, a suo modo, ci sta ricordando la necessità di non perdere il senso dell’umorismo, — suggerì Roger, ormai in preda alla disperazione.
— No, no, stavo solo… non importa, — disse Catherine, senza smettere di ridacchiare dietro la mano. Roger la fissava diffidente, implorante: lei sapeva benissimo che stava cercando di stabilire quanto fosse matta in quel momento, con quanta brutalità potesse voltargli le spalle. Lui aveva bisogno di averla al suo fianco, mentalmente fragile o meno; aveva bisogno che vedesse la realtà come la vedeva lui, indipendentemente dalla malignità con cui i suoi demoni interiori le impedivano di esprimerla in termini ragionevoli. Lei non aveva il coraggio di dirgli che non esistevano più demoni interiori che la inducessero a ridere; era solo che in quel momento aveva per la mente cose più importanti del Coro Courage.
— I King’s Singers hanno avuto un successo strepitoso all’Albert Hall, — insistette Julian.
A questo Roger s’inalberò; significava mettere il dito nella piaga. — Stammi a sentire, non mi sono avventurato con la mia barchetta nel pericoloso mare del canto a cappella, — fece notare stizzito, — per cantare Obla-di, Obla-da a una massa di filistei dai buffi cappellini.
— Una massa sterminata , — gli ricordò Julian. — Quanti verranno a sentire noi al Benelux Contemporary Music Festival?
— Per l’amor del cielo, Julian, stai forse dicendo che dovremmo cantare Andrew Lloyd Webber e Raindrops keep falling on my head come se fosse un mottetto?
— E bravo il signor Courage: reductio ad absurdum ! — Julian si stava impennando in modo preoccupante, sembrava tarantolato. — Il mio umiliiiissimo consiglio è di prendere anche solo in considerazione qualcosa che potrebbe piazzare qualche culetto relativamente intelligente sui posti a sedere. I Beatles, per quanto la cosa possa sconcertarti, ispirano molto più amore di Pino Fugazza e del signor Waffels messi assieme, sempre che sia possibile immaginare una simile accoppiata senza uno sbocco — annaspò per riprendere fiato — di vomito.
— Sì, ma…
— Lo sai che cosa ci varrebbe un grande trionfo? — tuonò Julian, ormai fuori di sé. — La Bohemian Rhapsody dei Queen, arrangiata per cinque voci.
Dagmar sbuffò rumorosamente.
— Credete che scherzi? — esclamò Julian, che aveva un diavolo per capello. — Sentite qua! — E sbottò a cantare un passo della Bohemian Rhapsody , sciorinando tutta la sua estensione vocale che andava da un orribile finto basso a un falsetto di spietata precisione: Bis-mil-lah! No-o-o-o! We will not let you go — Let him go-o-o-o! Will not let you go — Let him go-o-o-o! No, no, no, no, no, no, no — Mama mia, mama mia, mama mia let me go…
Fortuna volle che la furia di Julian svaporasse prima di arrivare a quel Beelzebub has a devil put aside così familiare per averlo sentito tante volte sulla sua segreteria telefonica, e si lasciò crollare sulle ginocchia.
— Tu sei matto, — dichiarò Dagmar, ammirata, mentre nella stanza soffocante tornava a calare il silenzio.
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