— Tu che ne pensi, Ben? — disse Roger in tono implorante.
Ben fece un profondo respiro, sbattendo gli occhi mentre l’aria asfittica continuava a essere corsa da vibrazioni negative.
— Penso che una cosa è certa, — disse. — Ci siamo impegnati a cantare il Partitum Mutante al Benelux Contemporary Music Festival. Se lo facciamo, qualcuno metterà in dubbio il nostro buon senso. Se ci tiriamo indietro, tanti metteranno in dubbio la nostra serietà professionale.
Dagmar si scostò una pesante ciocca di capelli dal viso in un parossismo di fastidio.
— Siete tutti così inglesi, — si lamentò. — Vi uccidereste pur di non deludere l’impresa di pompe funebri. Perché non possiamo dire al Benelux Music Festival di ficcarsi i loro vari Fugazza e Waafels su per il culo?
— Aahh… Forse dovremmo considerare la cosa dalla prospettiva opposta, per così dire, — dichiarò Roger, con torvo ottimismo. — Sembriamo dare tutti per scontato che le ripercussioni negative di questo evento metteranno in cattiva luce la nostra reputazione, ma chi dice che non si riveli una manna dal cielo? Se il Partitum Mutante solleverà un polverone aizzando la stampa, il Coro sarà sulla bocca di tutti. In questo senso, indipendentemente da quello che provate davvero nell’intimo, sarebbe un bel salto qualitativo in termini di notorietà.
— E bravo il mignottone, — disse Julian con un broncio sarcastico.
— Come dici scusa?
— Intendevo in senso buono.
Chiaramente, da lì in poi la discussione non poteva che degenerare, e peccato che mancassero ancora molte ore alla fine della giornata. A più riprese, inesorabili come una funzione corporea, gli spasmi incontrollabili della disputa tornavano a riaccendersi. Catherine, benché immersa nella battaglia fino alle ginocchia, la guardava come da grande distanza. Sapeva che Roger non le avrebbe chiesto un parere, non dopo quelle sue risatine; aveva troppa paura che gli facesse fare una figuraccia mettendosi a parlare di biancheria intima. O forse temeva che si limitasse a fissarlo in preda a un ottenebramento intorpidito, come se lui cercasse di tirarla fuori da un pozzo senza fondo. Non si rendeva conto che lei ormai era altrove.
La verità era che tutto quel trambusto intorno al Partitum Mutante e al futuro del Coro non le faceva né caldo né freddo, e godeva del fatto che lo stesso valesse per Ben. Ogni volta che riusciva a farlo senza suscitare imbarazzo in nessuno dei due, si girava a lanciargli un’occhiata e sorrideva. Ben ricambiava i sorrisi, pallido per la stanchezza, mentre tra lui e Catherine si frapponeva tutto un rimbalzare di voci caustiche.
Lei pensò: Oserei fare qualcosa che potrebbe mandare a rotoli due matrimoni?
Alla fine, fu ancora una volta Axel a trarli in salvo. Strano come quella creaturina priva di orecchio musicale, quel marsupiale non invitato da nessuno che secondo le aspettative si sarebbe continuamente intromesso in una faccenda seria come il canto, li avesse lasciati entrare in sintonia con il Partitum Mutante senza mai interromperli per due intere settimane, facendosi sentire solo quando poteva esercitare il suo ruolo preferito di paciere.
Quel giorno, aveva permesso al Coro di litigare per tutta la mattinata e tutto il pomeriggio, accontentandosi dapprima di non imporre restrizioni più ambiziose se non quella di ricordare, ogni qualche ora, che dovevano fare una breve pausa per nutrirsi e dissetarsi. Però, quando calò la sera e loro seguitavano ad accanirsi, Axel decise che era il caso di adottare misure drastiche. Si spolmonò con l’intento di attirare la madre verso il suo corpicino febbricitante, che lui aveva marinato in una quantità di vomito e escrementi tale da guadagnarsi un bagno. Dagmar, interrotta proprio sul punto di annunciare la sua defezione dall’alleanza anglo-tedesca, ricacciò in gola le parole, salì pestando i piedi al piano di sopra e… non fece ritorno.
Il suo allontanamento ruppe quel vincolo di ostilità quasi spiritico e il Coro Courage, esausto, si disperse. Non avevano deciso niente, e la pioggia era ancora di là da venire. Julian se la svignò per farsi consolare dai borbottii della televisione olandese; Roger disse che sarebbe andato a letto, anche se l’espressione di ferito stoicismo che aveva sul viso faceva pensare che fosse diretto al Monte degli Ulivi per pregare.
Catherine e Ben si sedettero nella sala delle prove, da soli. Dalle finestre, gli alberi del bosco apparivano di un nero lanuginoso contro l’indaco del cielo notturno.
Dopo un po’, Catherine disse:
— A che cosa pensi, Ben?
E lui rispose:
— Resta poco tempo. Avremmo fatto meglio a esercitarci un po’.
Catherine annidò la guancia all’interno delle braccia conserte poggiate sullo schienale del divano. Da quell’angolazione, vedeva Ben con un solo occhio; era sufficiente.
— Cantami una canzone, Ben, — sussurrò.
Lui si alzò con un certo sforzo dalla poltrona e andò verso la vetrinetta. Spalancò gli sportelli e ne estrasse uno strumento musicale antico — una tiorba, forse. Una specie di liuto, comunque, reso stridulo dagli anni, scuro come melassa.
Ben tornò alla poltrona, si mise seduto, e trovò il punto meno assurdo del suo corpo tondeggiante dove poggiare il tondeggiante strumento. Poi, dolcemente, cominciò a strimpellare le corde. Dalle profondità del suo petto, sonori come un sassofono, giunsero i versi melanconici di Tobias Hume, risalenti al 1645.
Alas, poore men
Why strive you to live long?
To have more time and space
To suffer wrong?
Ahimè, perché
Lotti contro la morte?
Più tempo e spazio vuoi
Per subir torti?
Ripensando a una vita dedicata alla guerra e alla musica, il buon Tobias avrebbe potuto benissimo interrompersi a quel punto, e invece seguivano molti altri versi; la musica imponeva di andare avanti, anche se c’era poco da aggiungere a quello stato d’animo. Ben Lamb cantò l’intera canzone, quasi nove minuti in totale, strimpellando nel frattempo il suo triste accompagnamento minimalista. Poi, quand’ebbe finito, si alzò e ripose con cura il liuto nella custodia. Catherine sapeva che subito dopo sarebbe andato a letto.
— Grazie, Ben, — disse, le labbra che respiravano contro l’avambraccio. — Buonanotte.
— Buonanotte, — disse lui, trascinandosi dietro il corpo.
Un’ora dopo, Roger e Catherine fecero l’amore. Sembrava l’unico modo per rompere la tensione. Lui allungò una mano cercandola, la sua strana e irraggiungibile moglie, e lei cedette e si lasciò prendere.
— Non ci capisco più niente, niente, — gemette Roger, nella sua solitudine, mentre lei gli accarezzava la schiena umida.
— Non ci capisce niente nessuno, caro, — sussurrò Catherine distrattamente, lisciandogli i capelli con le mani. — Adesso dormi.
Non appena scivolò nel sonno, lei si scoprì, immaginando di fiammeggiare come brace ardente. Nella casa regnava il silenzio più assoluto; il rapporto di Julian con la televisione doveva essersi esaurito. Fuori, nel bosco, l’odore della pioggia imminente si gingillava sulla cima degli alberi, impertinente.
Sul punto di addormentarsi, Catherine pensò che stesse già sognando; c’erano dei rumori inquietanti che sembravano provenire dall’interno del suo corpo, i rumori di una creatura in difficoltà, che lottava per respirare, facendole vibrare i tessuti. Poi, a un tratto venne risvegliata da un grido realissimo che veniva dall’esterno. Il grido di un bambino, spaventato e incapace di parlare. Era quasi sicura che fosse Axel, ma l’istinto le diceva che era provocato da qualcosa che Dagmar non riusciva a gestire da sola.
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