— Ricordo che quando ero a Roma, — disse, — mi servivano delle mutandine. Ero in un grande magazzino e non sapevo come chiederle. Ovviamente non potevo far vedere le mie, giusto? Così ho cercato come si diceva in una guida. Sono sicura che c’era scritto mutante — . Rise, un po’ imbarazzata. — Non so perché mi ricordo certe cose.
Roger sorrise stancamente.
— Riprendiamo quella nota, — disse, — qualcuno vuole un po’ di caffè?
Quando tornarono nuovamente a sedersi, Roger li informò che Pino Fugazza in persona sarebbe venuto a trovarli il giorno dopo, per vedere — o meglio, per sentire — come procedevano con il suo capolavoro. Prima di allora, naturalmente, si rendeva necessario discutere quali passi del Partitum Mutante andavano provati con maggiore impegno, in modo da fare la migliore impressione possibile sul compositore.
Fu una discussione tesa, almeno fra quelli del Coro che avevano un’opinione in merito, Julian riteneva che i passaggi dove predominava il tenore non fossero sufficientemente sviluppati, mentre Dagmar era convinta che le armonie di contralto e tenore non fossero certo l’ideale; secondo Roger, invece, quelle pecche potevano essere aggiustate con tutto comodo una volta incorniciate entro solide e chiare linee guida baritonali. Si arrivò a un’impasse che impedì di cantare. Julian andò in bagno, Roger andò prendere una boccata d’aria fresca e Dagmar andò a dare un’occhiata ad Axel.
Rimasta da sola con Ben, Catherine disse:
— Le ho ancora quelle mutandine, a dire il vero. Hanno fatto un’ottima riuscita. Non mi meraviglierei se le avessi indosso proprio ora.
Ben poggiò il testone sulle mani e socchiuse gli occhi, sorridendo.
A letto, quella sera, Roger finalmente si concesse una scorrettezza.
— Tu non mi ami più, — disse, mentre Catherine si faceva piccola piccola acciambellandosi al suo fianco.
— Non lo so, non lo so, — ribatté Catherine, la voce un pigolio strozzato dalle lacrime e dal troppo canto.
— Ci hai pensato poi a smettere di prendere gli antidepressivi? — s’informò lui con voce atona, tirando le coperte per coprire le parti che lei aveva scoperto.
— Ho già smesso, — disse lei. Era vero. Era vero da giorni. In effetti, nonostante a Londra Roger le avesse gentilmente ricordato più volte tutte le cose che doveva assicurarsi di portare con sé in Belgio, chissà come era riuscita a lasciare quelle pillole a casa. La scatola di cartone che le conteneva per qualche motivo si era inzuppata di barbabietola e maionese, e lei non aveva saputo come risolvere il problema. La scatola delle pillole, il cibo che si era versato, la busta in cui era successo: aveva lasciato tutto quanto a casa, sotto il letto. Il letto dove dormiva da sola, nella camera degli ospiti.
— Davvero? — disse Roger, steso accanto a lei in Belgio. — E come ti senti?
Lei scoppiò a ridere. Cercò disperatamente di smettere, ricordando che Julian era nella stanza accanto, ma non ci riusciva; rise ancora più forte, singhiozzando fino a sentire una fitta ai fianchi.
Più tardi, quando l’accesso si fu placato, Roger si stese poggiandole la testa e una mano contro la schiena.
— Domani avremo una giornata pesante, — sospirò, gravato dalla solitudine e sul punto di addormentarsi.
— Non ti lascerò, — lo rassicurò Catherine.
Non appena il respiro di lui si fece profondo e regolare, ecco riecheggiare sinistramente il primo grido nel bosco all’esterno.
— Vieni a fare un giro in bici? — la invitò Dagmar la mattina dopo colazione.
Catherine arrossì, portando le mani tremanti alla gola. Nemmeno se un branco di focosi inuit l’avesse invitata a nuotare nuda nelle acque artiche si sarebbe sentita così confusa.
— Ah… sarebbe bellissimo, Dagmar, davvero, ma…
Guardò Ben in cerca d’aiuto, ma lui era alle prese con l’ havermout , contento come… be’, come un agnellino.
— Tanto per cominciare non ho la bici, — fece notare sollevata.
— Ne ho trovata una dietro il castello, — disse Dagmar. — È vecchia ma solida. Un’ottima bicicletta olandese. Ma se un modello vecchio ti crea qualche problema, puoi sempre usare la mia.
Sconfitta, Catherine si lasciò condurre fuori casa. Le cosce e i glutei della ragazza tedesca si flettevano come quelli di un olimpionico mentre camminava, l’acquamarina lucente dei pantacollant creava un brusco contrasto con l’azzurrino dei jeans uniformemente sbiaditi di Catherine. Le due bici erano già parcheggiate fianco a fianco sul ciglio della strada e scintillavano al sole. L’unica via di scampo consisteva nel dire: No, non voglio , che per Catherine era sempre stato impossibile.
— Dicono che una volta imparato a portare la bici, non si dimentica più, — disse, avvicinandosi con circospezione ai velocipedi, — solo che, sai, io ho dimenticato le cose più incredibili.
— Tranquilla, ce la prenderemo comoda, — disse Dagmar, intenta a legarsi in spalla lo zaino con Axel.
Catherine esaminò i sellini delle bici, tastando le curve della pelle, cercando di immaginare quanto sarebbero risultati duri o morbidi fra le gambe.
— Ehm… quale delle due è meglio per una che non ha… come dire…
Dagmar si strinse nelle spalle, una bella impresa visto che aveva un essere umano di sei chili sulla schiena.
— Una ha un centinaio di marce, l’altra non ne ha nessuna, — disse. — Ma andando piano su una strada completamente piatta non fa una grande differenza.
E così cominciò. La preoccupazione di Catherine si trasformò in sollievo scoprendo che sapeva ancora guidarla benissimo. L’altro timore, che Dagmar prendesse la fuga lasciandola indietro, si rivelò ugualmente infondato. La ragazza tedesca manteneva un’andatura lenta e regolare — non perché si sforzasse particolarmente di essere premurosa, ma soltanto perché aveva dato istruzione alle gambe di ruotare a un certo numero di giri al minuto. Qualunque fosse il motivo, Catherine riusciva a tenerle dietro e, con piacere via via crescente, si ritrovò a pedalare lungo la strada scura e levigata, il bosco che le scorreva sfocato ai lati, un venticello prodotto da lei stessa fra i capelli.
Dopo un paio di miglia, si sentì perfino tanto sicura da parlare.
— Non puoi sapere quanto mi sto divertendo, — disse forte in direzione di Dagmar.
Axel, annidato contro la schiena della madre, la faccia a malapena visibile sotto il cappellino di lana, spalancò gli occhi. Non era abituato ai compagni di viaggio.
— Stasera canterai meglio, — dichiarò Dagmar con convinzione. — Fa bene ai polmoni, fa bene al diaframma, fa bene a tutto.
— La prossima volta mi ritroverò a fare alpinismo con te! — Era il genere di commento che nei Paesi Bassi si poteva fare senza timori.
— Grande idea, — disse Dagmar. — Ci sono delle montagne niente male appena superato il confine tedesco, a Eifel. Non sono più di trecento chilometri di viaggio.
Catherine rise educatamente, forse non tanto forte da coprire il ronzio delle ruote e farsi sentire da Dagmar. In lontananza, la guglia di una chiesa annunciò l’approssimarsi di Martinekerke.
Era una Catherine fiera e raggiante quella che giunse in bicicletta davanti alla porta dello Château de Luth un’ora dopo. Aveva esplorato il vasto mondo, facendo una piccola ricognizione dei servizi offerti dal luogo. Ora lei e Dagmar rientravano con le provviste.
I tre uomini le guardarono ammutoliti mentre loro, due donne rosse in viso e sudate, portavano la spesa in cucina.
Va tenuto presente che in realtà Catherine non era riuscita a trasportare granché sulla sua bicicletta, non avendo pensato di prendere una sporta di qualche tipo prima di uscire. Però si era assunta la responsabilità delle uova, avvolgendole in un maglioncino che non aveva indossato perché faceva troppo caldo, e sistemandole nel nido sicuro del cestino della strana bicicletta olandese.
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