Perfino Julian non sapeva più che pesci pigliare.
— Brutta storia, — disse, alzandosi in piedi per seguire Roger in cucina.
Dagmar si asciugò la fronte con il braccio. Nel compiere quel gesto, il tessuto della maglietta le si incollò ai seni, mettendola in guardia sul fatto che aveva perso il latte dai capezzoli.
— Scusami, — disse.
— Secondo te quanto tempo è passato, — chiese Roger quella sera a letto, — dall’ultima volta che abbiamo fatto l’amore? — Guidare un gruppo canoro gli aveva insegnato a celare la sua pedanteria sotto le mentite spoglie della consultazione.
— Non lo so, — disse lei sinceramente. — Un bel po’, direi —. Sarebbe stato… poco diplomatico dare a intendere qualcosa di diverso, ovviamente.
Il silenzio arcano del bosco di Martinekerke tornò a insediarsi nella camera da letto nero inchiostro. Catherine si chiese che fine avesse fatto la luna, avrebbe giurato che la notte prima era quasi piena. Dovevano esserci le nuvole a nasconderla.
— Allora secondo te abbiamo un problema? — disse Roger dopo un po’.
— Niente che non possa risolversi nel migliore dei modi, ne sono sicura, — disse Catherine. — Il dottore l’ha detto che gli antidepressivi potevano inibire… cioè… il desiderio —. La parola risultò di un romanticismo da far aggricciare, il genere di parola alla Barbara Cartland, a meno di non voler risalire a William Blake.
What is it that women do require?
The lineaments of gratified desire.
Che cosa richiedono le donne?
I lineamenti del desiderio appagato.
In parte era proprio per risparmiarsi di scoprire cosa mai potessero significare parole come lìneaments che Catherine aveva permesso a Roger di sottrarla al Magdalen’s College.
— Mi stai ascoltando? — la sollecitò lui nel vuoto della notte priva di rumori.
— Sì, — lo rassicurò lei. — Stavo solo pensando.
— A che cosa?
— Non me lo ricordo più —. Si lasciò sfuggire una risatina imbarazzata.
Roger rimase immobile per qualche altro secondo o per qualche minuto, poi si girò sul fianco, portandosi di fronte a lei. Non lo vedeva in faccia, però sentì il suo gomito affondare sul bordo del proprio cuscino e avvertì, al centro del letto vicino alle cosce, il calore del suo… be’, del suo desiderio.
— Sei ancora una bella donna, lo sai, — disse lui con voce pacata, profonda.
Catherine, incapace di controllarsi, sbottò in una sonora risata. Quel blando complimento, porto in modo così solenne, così seducente, in un momento in cui nessuno dei due vedeva un emerito accidenti, per qualche motivo le sembrava intollerabilmente spassoso.
— Scusa, scusa, — bisbigliò, umiliata all’idea che Julian potesse sentirli attraverso la parete. — Devono essere gli antidepressivi.
Roger piombò sulla schiena con una veemenza che fece oscillare le molle del letto.
— Magari sarebbe ora che smettessi di prenderli, — le propose stancamente. — Voglio dire, hai avuto idee suicide ultimamente?
Catherine fissò fuori dalla finestra, sollevata nel vedere un pallido bagliore lunare trapelare in cielo.
— Vanno e vengono, — disse.
Qualche ora dopo, mentre lui dormiva, Catherine si mise a piangere in silenzio. Avrebbe tanto voluto cantare una canzone fra sé, qualcosa di dolce e ritmato, un piccolo Lied di Schubert o magari una filastrocca. Stella, stellina, la notte si avvicina sarebbe stata perfetta. Ma ovviamente non era possibile. Le bruciava la gola per aver cantato il Partitum Mutante , e poi aveva il terrore di svegliare il marito, in una strana camera da letto in mezzo a un bosco belga, mentre quella vipera di Julian Hind stava con l’orecchio teso pronto a cogliere il minimo fruscio al di là del muro. Mio Dio, com’era arrivata a quel punto?
A un tratto, sentì un breve grido acutissimo levarsi da grande distanza. Non era Axel, almeno non le sembrava; quel bambino dormiva come un angioletto tutta la notte e, di giorno, a malapena si lasciava sfuggire un suono a meno di non mandare a fuoco una fetta di pane belga proprio sotto il suo naso.
Catherine sentì la pelle corsa da un brivido elettrico al ripetersi del grido. Non sembrava umano o, ammesso che lo fosse, era in parte anche qualcos’altro. Quanto avrebbe voluto scivolare dall’altro lato del letto, nel grande abbraccio protettivo di qualcuno che di sicuro non le avrebbe fatto niente se non tenerla al caldo e al sicuro. Tipi difficili da trovare, stando alla sua esperienza.
Invece, si tirò le coperte fino alla bocca e rimase immobile, a contare le grida finché non si addormentò.
La mattina, non riuscì a presentarsi per l’ora di colazione. Aveva sperato di essere lì, vispa come un grillo, ogni mattina prima di Roger, ma l’insonnia della notte precedente aveva avuto la meglio su di lei, che finì col dormire fino a mezzogiorno. Roger era andato via da un pezzo quando si svegliò. Punteggio: Roger: uno, Catherine: zero.
Il sole si riversava dalla finestra, il calore le accelerava il metabolismo producendole un fastidioso ribollio in corpo. Poco prima di svegliarsi aveva avuto un incubo: sognava di soffocare dentro un sacco umido e trasparente; ora, finalmente e angosciosamente lucida, si liberò a viva forza delle coperte appiccicose e si mise seduta, madida di sudore.
Fece una doccia e si vestì, udendo unicamente i rumori prodotti da lei stessa. Forse gli altri bighellonavano al piano di sotto in attesa di cantare, solo che mancava il soprano. Forse erano andati insieme a esplorare i dintorni, lasciandola sola nello Château de Luth con i suoi arcolai, i flauti antichi e un letto dove non sapeva se ce l’avrebbe fatta a coricarsi di nuovo.
Non aveva motivo di preoccuparsi. Arrivata in cucina trovò Ben, ancora con il suo pigiama XXL e l’aria un po’ impacciata, seduto da solo sulla panca inondata di sole a scartabellare un «Times Literary Supplement» di quattro anni prima.
Che tipo strano, pensò Catherine. Il più anziano fra loro, a cinquantacinque anni aveva la stessa faccia da bambino di quando avevano istituito il Coro Courage. Era sempre stato enorme, benché fosse relativamente più grosso ora di due decenni prima. Sicuro di sé senza darlo a vedere e misurato su tutti i fronti, aveva un unico punto debole: lo stomaco d’Achille. A ogni tournée rivelava una sorprendente scorta di talenti fin lì insospettati — l’anno prima aveva smontato il motore rotto dell’autobus che li accompagnava rimettendolo in sesto con una cravatta e due fedi nuziali — solo che in fatto di alimentazione era una frana.
— Ciao, — disse lui, e da un punto al suo interno scaturì una specie di rombo non molto dissimile dai mugugni che costituivano il suo contributo al Partitum Mutante.
Catherine era sicura che sarebbe stato in grado di risolvere qualunque sfida fisica o intellettuale posta da una pentola e una confezione di avena, ma era chiaro che per qualche motivo non sapeva decidersi ad affrontarla. Ben la guardò con una supplica sincera negli occhi. Le stava dicendo, con quello sguardo, che amava profondamente sua moglie, solo che lei era a Londra mentre Catherine era lì con lui, e allora che fare?
— Ti va un po’ di porridge, Ben? — gli chiese lei.
— Sì, — rispose all’istante, i guancioni che prendevano colore.
— Allora ne preparo un po’ per tutti e due, — disse Catherine.
Venne fuori che, a parte il soprano che aveva passato la mattinata a dormire, nel Coro Courage mancava anche il contralto. Alle prime luci dell’alba, Dagmar aveva preso la bici inoltrandosi nel bosco con Axel, e non era ancora tornata. Forse era andata a Martinekerke o a Duidermonde a fare provviste; forse si teneva solo in esercizio. Fatto sta che era sparita, così Roger sbrigava un po’ di corrispondenza su uno dei computer, Julian leggeva un tascabile in salotto e Ben stava lì ad aspettare che qualcuno gli offrisse la colazione.
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