Jan si diede da fare con le serrature, servendosi dapprima di una massiccia chiave di ottone dall’aria antica e poi di un paio di normali chiavi d’acciaio inossidabile.
— Presto! — esclamò. Non avendo mai visto un prestigiatore all’opera, Catherine prese l’espressione per una direttiva musicale. Cosa poteva mai volere che facessero presto? Lei era in uno stato mentale che somigliava più all’ adagio.
Il magnifico salone del castello, pieno di luce e oggetti antichi, era ovviamente il luogo in cui si sarebbero tenute le prove. Julian, com’era sua consuetudine, saggiò immediatamente l’acustica con alcuni mi sottovoce. Aveva fatto altrettanto in cantine e cattedrali da Aachen a Zyrardów; non riusciva a evitarlo, o almeno così diceva.
— Mi-mi-mi-mi-mi, — intonò, poi sorrise. Era un netto miglioramento rispetto al salotto ovattato di Ben Lamb.
— Sì, è ottimo, — disse sorridendo il direttore, e cominciò a mostrare il resto della casa.
Catherine era entrata da un paio di minuti appena quando cominciò a sentire un educato disagio insediarsi saldamente sulle spalle. Non dipendeva sicuramente dall’atmosfera del luogo che era affascinante, per non dire incantevole. Tutta la mobilia e buona parte degli accessori erano di legno scuro, un po’ cupo forse, ma c’era luce in abbondanza a riversarsi dalle tante finestre e un odore buonissimo, o forse era assenza di odore: aria carica di ossigeno non contaminata da congestione industriale o umana.
Tutte le comodità, moderne e antiche, erano a disposizione: pianoforte verticale Giraffe, doccia idromassaggio, trapunte ricamate, forno a microonde, frigorifero, uno xilofono da concerto, un arcolaio del Settecento, due computer, la serie completa anteguerra del Dizionario della musica e dei musicisti di Grove (in olandese), una serie di flauti dolci di legno su un espositore decorato (sopranino, discanto, alto, tenore, oltre a un flagolet), vari telefoni cordless e perfino un assortimento di ciabatte da portare in casa.
No, non era niente di tutto questo a preoccupare Catherine, mentre seguiva i colleghi del Coro nella visita guidata del castello. Si trattava esclusivamente del numero di camere da letto. Mentre il direttore li scortava da una stanza all’altra, lei teneva il conto e, arrivati alla minuscola cucina, un pezzo da esposizione di legno lucido degno di Vermeer, capì che non erano più di quattro. Una per Ben, una per Julian, una per Dagmar, e… una per lei e Roger.
— I negozi non sono esattamente dietro l’angolo, — stava dicendo il direttore, — perciò vi abbiamo lasciato un po’ di provviste negli armadietti. Non è cibo inglese, ma servirà a tenervi in vita nei casi di emergenza.
Non volendo apparire sgarbata, Catherine si sforzò di guardare nell’armadietto che lui teneva aperto affinché potessero constatare loro stessi. In primo piano c’era un scatola di cartone contenente quella che, dall’illustrazione, sembrava esattamente la vegetazione che circondava la casa. Boerenkool , c’era scritto.
— Ma questa roba è dolcissima, — disse, rigirandosi la scatola quasi priva di peso fra le mani.
— No, — disse Jan, — ha un sapore terroso, leggermente amaro.
Sicché la sua capacità di capire i visitatori d’Oltremanica aveva un limite.
Al calare del buio, verso le nove di sera, finalmente comparve Dagmar. Il direttore era andato via da un pezzo; il Coro Courage era tutto preso a disfare i bagagli, lanciarsi voci, mangiare Corn Flakes ( Nieuw Super Knapperig !) e in altre attività di insediamento. Fu Ben a scorgere, dalla finestra al piano di sopra, la minuscola figura che si avvicinava in bicicletta da grande distanza. Si riversarono tutti fuori, un comitato di benvenuto per il loro contralto prodigo.
Dagmar aveva pedalato dalla stazione di Duidermonde con un pesante zaino in spalla e i cestini anteriore e posteriore della bicicletta stracolmi. Il sudore luccicava sul collo e impregnava la larga T-shirt bianca rendendola trasparente a contatto con il reggiseno nero e la cassa toracica abbronzata; scuriva le ginocchia dei pantacollant sportivi blu elettrico e scintillava nella frangetta scompigliata dei capelli nerissimi. Eppure lei sembrava ancora piena di energie mentre scendeva dalla bici portandola a mano verso i colleghi del Coro.
— Scusate se ci ho messo tanto; quelli del traghetto mi hanno fatto un mucchio di storie, — disse, gli occhioni castani che si stringevano leggermente per l’imbarazzo. Come tutti gli anticonformisti vistosi, preferiva sfrecciare davanti a quelli che la guardavano ammirati, lasciandoli a bocca aperta sulla sua scia, anziché farsi esaminare con tutto comodo mentre pedalava coprendo miglia e miglia di una strada piatta per raggiungerli.
— Tranquilla, tranquilla, non abbiamo ancora cominciato, — disse Roger, avanzando per liberarla dall’ingombro della bici, che però lei decise di affidare a Ben. Nonostante la stazza imponente, poco adatta per pedalare, Dagmar era sicura che lui sapesse cosa farne.
Dondolando leggermente sulle Reebok che aveva ai piedi, Dagmar si asciugò la faccia con la T-shirt. La parte bassa del torace, come il resto della pelle, aveva il colore dei toffee.
— Be’, vedo che il parto non ha deturpato il tuo fisico d’atleta, — fu il commento di Julian.
Dagmar liquidò quel complimento incompetente e vacuo con una scrollata di spalle.
— In realtà ho perso un casino di tono muscolare, — disse. — Cercherò di recuperarlo qui.
— Tonificare i muscoli! — cinguettò Julian, sforzandosi, come sempre succedeva dopo qualche minuto che si trovava in presenza di Dagmar, di mantenere un atteggiamento amichevole. — Non è per questo che siamo venuti?
Il pensiero del figlio di otto settimane di Dagmar risvegliò Catherine dal suo torpore. — Chi si occupa del piccolo Axel? — chiese.
— Non è un problema, — rispose Dagmar. — Starà qui con noi.
Quella rivelazione proiettò drasticamente in avanti il mento di Julian. Già la gravidanza di Dagmar era stata un duro colpo per lui; ma ora la prospettiva del bambino che l’avrebbe raggiunta era veramente troppo.
— Io… non… credo che sia una buona idea — disse, il tono meditabondo e musicale, come se Dagmar gli avesse chiesto un parere e lui avesse riflettuto a lungo prima di rispondere.
— Ma davvero? — fece lei freddamente. — E come mai?
— Be’, pensavo solo che se ci hanno dato questo spazio, questo spazio letterale e metafisico, per fare le prove, lontano dal rumore e dalle distrazioni, be’… sembra strano portarci un neonato e i suoi piagnistei, ecco tutto.
— Veramente mio figlio non è tipo da piagnistei, — disse Dagmar, sventolando l’orlo della T-shirt per far entrare l’aria fresca. — Per essere un maschio, è molto meno rumoroso di tanti altri —. E passò davanti a Julian per impossessarsi del proprio territorio allo Château de Luth.
— Be’, avremo modo di appurarlo, — osservò Julian mestamente.
— È quello che penso anch’io, — disse Dagmar da sopra la spalla. Sulla schiena, annidato nello zaino rigonfio, un neonato dai capelli dritti dormiva il sonno del giusto.
Quando il Coro Courage si predispose alla prima vera prova del Partitum Mutante era ormai buio. Le luci brunite riversavano un bagliore ramato sulla stanza, e le finestre riflettevano cinque improbabili individui con luminosa chiarezza. A Catherine, quelle persone riflesse sembravano legate da un sodalizio: cinque moschettieri pronti a dare battaglia.
Se solo fosse riuscita a concentrarsi su quell’immagine irreale, che brillava su una lastra di vetro con un bosco alle spalle, si sarebbe vista attaccata con le unghie e con i denti al proprio ruolo all’interno di quella piccola confraternita. Le prove costituivano sempre la sfida più ardua; l’esibizione finale era una passeggiata in confronto. Il pubblico, che li vedeva sul palco come se fossero una lontana proiezione, sapeva solo che erano un clan affiatato, e questo a loro permetteva di comportarsi come tale. La pedana da concerto, con la sua artificiosità, era a prova di eventi sgradevoli: nessuno litigava, né metteva il broncio, né faceva a Catherine domande a cui non sapeva rispondere, né si aspettava che acconsentisse a fare sesso. Si limitavano a cantare, in perfetta armonia. Anzi, nel caso del Partitum Mutante di Pino Fugazza, in perfetta disarmonia.
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