Mikhail Bulgakov - Il Maestro e Margherita

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— Nella panetteria presso la porta di Hebron, subito a sinistra appena si entra in città.

Pilato guardò la larga lama, saggiò col dito l’affilatura, e disse:

— Per il coltello non preoccuparti, sarà riconsegnato al proprietario. Adesso mi serve un’altra cosa: mostrami la pergamena che porti con te, dove sono trascritte le parole di Jeshua.

Levi guardò con odio Pilato e fece un sorriso cosí cattivo che il volto gli si deformò completamente.

— Tutto mi vuoi prendere? Tutto quanto mi è rimasto? — chiese.

— Non ti ho detto «dammela», — rispose Pilato, — ho detto «mostramela».

Levi si frugò in seno e trasse un rotolo di pergamena.

Pilato lo prese, lo svolse, lo distese tra i lumi e, socchiudendo gli occhi, cominciò a studiare quei segni poco decifrabili. Era difficile capire quelle righe storte, e Pilato corrugava la fronte e si chinava sulla pergamena, seguendo col dito le righe. Riuscí comunque a capire che quello scritto era una catena sconnessa di massime, di date, di appunti domestici e di frammenti poetici. Qualcosa riuscí a leggere: «…la morte non esiste… ieri abbiamo mangiato dolci fichi primaverili…»

Con una smorfia per lo sforzo, Pilato socchiudendo gli occhi, leggeva: «… vedremo il puro fiume dell’acqua della vita… l’umanità guarderà il sole attraverso un diafano cristallo…»

Qui Pilato sussultò. Nelle ultime righe della pergamena aveva decifrato le parole: «il vizio maggiore… la codardia..»

Pilato arrotolò la pergamena e con un gesto brusco la restituí a Levi.

— Prendi, — disse, e dopo una pausa soggiunse: — vedo che sei un uomo di lettere, e non è il caso che tu, che sei solo, giri vestito come un mendicante, senza un rifugio. A Cesarea ho una grande biblioteca, sono molto ricco e voglio prenderti al mio servizio. Esaminerai e riordinerai i papiri, avrai da mangiare e da vestire.

Levi si alzò e rispose:

— No, non voglio.

— Perché? — chiese il procuratore, facendosi scuro in volto. — Non ti piaccio… mi temi?

Lo stesso cattivo sorriso storse i lineamenti di Levi, che disse:

— No, perché sarai tu a temermi. Non ti sarà tanto facile guardarmi in faccia dopo averlo ucciso.

— Taci, — rispose Pilato, — prendi del denaro.

Levi scosse la testa in segno di diniego, mentre il procuratore proseguiva:

— So che tu ti consideri un discepolo di Jeshua, ma ti dirò che non hai assimilato niente di ciò che egli ti ha insegnato. Infatti, se non fosse cosí, avresti senz’altro accettato qualcosa da me. Tieni conto che prima di morire ha detto che non accusava nessuno — . Pilato alzò un dito con fare significativo, il suo volto era contratto da un tic. — E lui stesso avrebbe certamente accettato qualcosa. Tu sei crudele, lui non lo era. Dove andrai?

All’improvviso Levi si avvicinò al tavolo, vi si appoggiò con ambo le mani, e guardando il procuratore con occhi ardenti, gli sussurrò:

— Tu, egemone, sappi che io sgozzerò un uomo a Jerushalajim. Ho voglia di dirtelo affinché tu sappia che ci sarà ancora del sangue.

— Lo so anch’io che ce ne sarà ancora, — rispose Pilato, — non mi sorprendono queste tue parole. Naturalmente, vuoi ammazzare me?

— Non ci riuscirei, — rispose Levi, digrignando i denti e sorridendo, — non sono tanto stupido da contarci. Ma ammazzerò Giuda di Kiriat: a questo dedicherò il resto della mia vita.

Qui gli occhi del procuratore si riempirono di delizia, e facendo segno col dito a Levi di avvicinarsi di piú, disse:

— Non potrai farlo, non pensarci piú. Giuda è già stato ammazzato questa notte.

Levi si allontanò dal tavolo con un balzo, guardandosi attorno con occhi spiritati, ed esclamò:

— Chi l’ha fatto?

— Non essere geloso, — rispose Pilato digrignando i denti, e si fregò le mani, — temo che avesse altri ammiratori oltre a te.

— Chi l’ha fatto? — ripeté Levi in un sussurro.

Pilato gli rispose:

— L’ho fatto io.

Levi spalancò la bocca e fissò il procuratore, che disse sommesso:

— Con questo non si è fatto molto, naturalmente, però l’ho fatto io — . E soggiunse: — Be’, adesso accetterai qualcosa?

Levi pensò, si addolcí, e disse infine:

— Disponi che mi diano un pezzo di pergamena nuova.

Passò un’ora. Levi non era piú nel palazzo. Adesso il silenzio dell’alba era interrotto soltanto dal rumore lieve dei passi delle sentinelle nel giardino. La luna sbiadiva rapidamente, all’altro lato del cielo si vedeva la macchiolina bianchiccia della stella mattutina. Da un pezzo i candelabri erano stati spenti. Il procuratore si era coricato. Con la mano sotto la guancia, dormiva e respirava silenziosamente. Vicino a lui dormiva Banga.

Cosí il quinto procuratore della Giudea Ponzio Pilato incontrò l’alba del quindici di Nisan.

CAPITOLO VENTISETTESIMO

Fine dell’appartamento n.50

Quando Margherita giunse alle ultime parole del capitolo «Cosí il quinto procuratore della Giudea Ponzio Pilato incontrò l’alba del quindici di Nisan», era giunto il mattino.

Si udiva nel cortiletto, tra i rami del salice e del tiglio, l’allegro ed eccitato cicaleccio mattutino dei passerotti.

Margherita si alzò dalla poltrona, si stiracchiò, e solo allora sentí quanto fosse indolenzito il suo corpo e che voglia avesse di dormire. E interessante notare che l’animo di Margherita era perfettamente normale. I suoi pensieri non erano confusi, non era per nulla scossa dall’aver trascorso la notte in modo straordinario. Non l’emozionava il ricordo della sua presenza al ballo di Satana, né che per un miracolo il Maestro le fosse stato restituito, che dalla cenere fosse risorto il romanzo, che tutto fosse di nuovo al proprio posto nello scantinato del vicolo, da dove era stato scacciato il delatore Aloizij Mogaryč. Insomma, la conoscenza con Woland non le aveva recato alcun nocumento spirituale Tutto era andato come se cosí dovesse andare.

Passò nella camera accanto, si assicurò che il Maestro stesse dormendo di un sonno profondo e calmo, spense l’inutile lampada da tavolo, e si distese sul piccolo divano, coperto da un vecchio lenzuolo strappato, presso la parete opposta. Un minuto dopo stava dormendo, e in quel mattino non le apparve alcun sogno. Tacevano le camere nello scantinato, taceva tutta la casetta del capomastro e il vicolo cieco era silenzioso.

Ma in quello stesso momento, cioè all’alba del sabato, un intero piano di uffici di un’organizzazione moscovita stava vegliando, e le finestre, prospicienti una grande piazza asfaltata, percorsa lentamente da apposite macchine che ronzando la ripulivano coi loro spazzoloni, brillavano con tutte le loro luci, che fendevano la luce del sole sorgente.

Tutto quel piano era impegnato nell’investigazione dell’affare Woland, e le lampade rimasero accese per tutta la notte in decine di uffici.

In realtà, la questione era chiara sin dal giorno precedente, dal venerdí, quando era stato necessario chiudere il Varietà in conseguenza della scomparsa dei suoi amministratori e di ogni sorta di scandali avvenuti durante la famosa rappresentazione di magia nera. Ma il fatto è che a quegli uffici insonni giungevano continuamente sempre nuovi dati.

Adesso, l’inchiesta relativa a quello strano affare che puzzava chiaramente di diavoleria, con l’aggiunta per di piú di trucchi ipnotici e di evidenti crimini, aveva il compito di stringere in un sol nucleo i molteplici e ingarbugliati avvenimenti successi in diversi punti di Mosca.

Il primo che ebbe l’occasione di visitare gli uffici insonni, brillanti di luci elettriche, fu Arkadij Apollonovič Semplejarov, presidente della Commissione acustica.

Nel pomeriggio del venerdí, nel suo appartamento sito in una casa presso il ponte Kamennyj, risuonò uno squillo, e una voce maschile pregò di chiamare al telefono Arkadij Apollonovič. La consorte di Arkadij Apollonovič, che aveva risposto al telefono, disse con voce cupa che Arkadij Apollonovič stava poco bene, era andato a riposare e non poteva venire all’apparecchio. Tuttavia al telefono Arkadij Apollonovič dovette venire lo stesso: alla domanda chi lo volesse, la voce aveva spiegato con molta brevità chi fosse.

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