Mikhail Bulgakov - Il Maestro e Margherita
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— Nella persona di questo Dunčil’, avete visto nel nostro programma un tipico somaro. Avevo pur avuto il piacere di dire ieri che è assurdo tenere nascosta della valuta. Nessuno può utilizzarla in nessun caso, ve lo assicuro. Prendiamo per esempio, questo Dunčil’. Ha un ottimo stipendio e non gli manca nulla. Ha un bellissimo appartamento, una moglie e una splendida amante. Ebbene no! Invece di vivere tranquillo e pacifico, senza grane, dopo aver consegnato valuta straniera e pietre preziose, questo avido imbecille si è fatto smascherare in pubblico, e per coronare il tutto si è procurato grossi guai in famiglia. Dunque, chi consegna? Non ci sono volontari? In tal caso, passiamo al numero successivo del nostro programma: il celebre attore drammatico Savva Potapovič Kurolesov, appositamente invitato, reciterà brani dal Cavaliere avaro del poeta Puskin.
L’annunciato Kurolesov non tardò a comparire sul palcoscenico. Era un uomo massiccio e carnoso, con la testa rasata, in frac e cravatta bianca. Senza alcun preambolo egli fece il volto cupo, aggrottò le ciglia e disse con voce innaturale, guardando la campanella d’oro:
Come un giovane bellimbusto aspetta
Un convegno con donna scaltra e dissoluta…
E Kurolesov raccontò di sé molte cose sgradevoli. Nikanor Ivanovič sentí confessare che una povera vedova lo implorava, inginocchiata davanti a lui sotto la pioggia, ma senza commuovere l’arido cuore dell’attore.
Prima di questo sogno, Nikanor Ivanovič non conosceva minimamente le opere del poeta Puskin, ma conosceva benissimo l’uomo e ogni giorno pronunciava piú volte frasi come: «E l’affitto, lo paga Puskin?» oppure «La lampadina della scala, l’avrà svitata Puskin!», «La nafta, è Puskin che la compera?»…
Adesso, fatta conoscenza con una delle sue opere, Nikanor Ivanovič divenne triste, si immaginò la donna in ginocchio, con gli orfani, sotto la pioggia, e pensò involontariamente: «Un bel tipo, però, quel Kurolesov!»
Quello frattanto, alzando sempre piú la voce, continuava a confessare e fece perdere del tutto il filo a Nikanor Ivanovič, perché a un tratto cominciò a rivolgersi a qualcuno che sul palcoscenico non c’era, rispondeva a se stesso a nome di quell’assente, chiamando se stesso a volte signore, a volte barone, a volte padre, a volte figlio, ogni tanto usando il tu, ogni tanto il lei.
Nikanor Ivanovič capí una cosa sola: che l’attore moriva di una brutta morte, gridando: «Le chiavi, le chiavi!» dopo di che cadeva in terra rantolando e strappandosi con precauzione la cravatta.
Dopo essere morto, Kurolesov si alzò, si scosse la polvere dai pantaloni del frac, salutò con un sorriso falso, e si allontanò accompagnato da rari applausi. Il presentatore disse:
— Abbiamo sentito, nella meravigliosa interpretazione di Savva Potapovič, Il cavaliere avaro . Quel cavaliere sperava che vispe ninfe sarebbero corse da lui e che sarebbero avvenute molte altre cose piacevoli dello stesso tipo. Invece, come avete visto, niente di tutto questo è avvenuto nessuna ninfa è corsa da lui, le muse non gli hanno dato il loro tributo, ed egli non ha innalzato alcun palazzo, anzi ha fatto una bruttissima fine, è crepato per un colpo sopra i suoi forzieri pieni di valuta straniera e di pietre preziose. Vi avverto che anche a voi capiterà qualcosa di simile, se non di peggio, se non consegnerete la valuta!
Fosse l’arte poetica di Puskin ad avere tanta efficacia oppure il prosaico discorso del presentatore, fatto sta che dalla sala si udí a un tratto salire una voce timida:
— Consegno la valuta.
— Si accomodi sul palcoscenico, — invitò urbanamente il presentatore fissando la sala buia.
Sul palcoscenico apparve un signore biondo di bassa statura che, a giudicare dal volto, non si radeva da tre settimane.
— Scusi, come si chiama? — s’informò il presentatore.
— Nikolaj Kanavkin, — rispose timido il nuovo venuto.
— Ah! Piacere, signor Kanavkin. Dunque?…
— Consegno, — disse sottovoce Kanavkin.
— Quanto?
— Mille dollari e venti pezzi d’oro da dieci rubli.
— Bravo! È tutto quello che ha?
Il direttore del programma fissò negli occhi Kanavkin, e a Nikanor Ivanovič sembrò persino che da quegli occhi sprizzassero raggi che trafiggevano Kanavkin come raggi Roentgen. La sala tratteneva il respiro.
— Ci credo! — esclamò infine l’attore e spense il suo sguardo, — ci credo! Questi occhi non mentono! Quante volte ve l’ho detto: il vostro errore fondamentale sta nel sottovalutare l’importanza degli occhi umani. Capite, la lingua può nascondere la verità, ma gli occhi mai! Vi rivolgono una domanda inaspettata, voi, senza battere ciglio, in un secondo, vi padroneggiate e sapete che cosa bisogna dire per nascondere la verità, e lo dite nel modo piú convincente, non un muscolo del vostro volto si muove, ma, ahimè, la verità smossa dalla domanda balza per un istante dal fondo dell’anima negli occhi, e tutto è finito! Essa è stata notata, e voi ci siete cascati!
Dopo aver pronunciato con molto ardore questo convincente discorso, l’attore domandò cordialmente a Kanavkin:
— Dove li ha nascosti?
— Da mia zia, la Porochovnikova, sulla Prečistenka.
— Ah! E… aspetti… da Klavdija Il’inišna, vero?
— Sí.
— Ah sí, sí, sí, sí. Una piccola palazzina? Con un giardinetto di fronte? Sí, certo, la conosco, la conosco benissimo! Dove li ha ficcati?
— In cantina, in una scatola di cioccolatini…
L’attore alzò le braccia al cielo.
— Si è mai visto una cosa simile! — esclamò rattristato. Ma saranno coperti di muffa, fradici d’umidità! Come si fa ad affidare della valuta a gente cosí? Eh? Veri bambini! Parola d’onore!…
Kanavkin capiva anche troppo bene che aveva fatto una figuraccia, e reclinò la testa irsuta.
— Il denaro, — continuava l’attore, — va tenuto nella banca di stato, in ambienti appositi, asciutti e ben sorvegliati, non nella cantina della zia dove, tra l’altro, lo possono rosicchiare i topi. Davvero, si vergogni, Kanavkin! E sí che è un uomo!
Kanavkin non sapeva piú dove nascondersi, e si tormentava con un dito il risvolto della giacchetta.
— E va bene, — si addolcí l’attore, — non rivanghiamo il passato… — e aggiunse inaspettatamente: — Già, a proposito… per pigliare due piccioni con una fava… Cosí non mandiamo la macchina avanti e indietro… quella sua zia, ne ha anche lei, no?
Kanavkin, che non si aspettava assolutamente che la conversazione prendesse questa piega, sobbalzò, e nel teatro si fece silenzio.
— Ehi, Kanavkin… — disse il presentatore con tono che era di rimprovero e di affabilità, — e io che la stavo lodando! È partito bene, e a un tratto si ferma! È un assurdo, Kanavkin! Ma se ho appena parlato degli occhi! Si vede che la zia ne ha. Ma perché lei ci tormenta inutilmente? — Ne ha! — esclamò baldanzoso Kanavkin.
— Bravo! — gridò il presentatore.
— Bravo! — ululò spaventosamente la sala.
Quando fu tornato il silenzio, il presentatore si congratulò con Kanavkin, gli strinse la mano, gli propose di portarlo in macchina a casa sua in città, e ordinò a qualcuno tra le quinte di andare con la stessa macchina a prendere la zia per pregarla di intervenire nel programma del teatro femminile.
— Già, volevo chiedere, la zia non le ha detto dove nasconde i suoi? — s’informò il presentatore, offrendo amabilmente a Kanavkin una sigaretta e un fiammifero acceso. Quello, accendendo la sigaretta, sorrise con una certa aria malinconica.
— Ci credo, ci credo, — rispose l’attore con un sospiro, — quella vecchia spilorcia non solo al nipote, ma neanche al diavolo lo direbbe! Be’, cercheremo di risvegliare in lei sentimenti umani. Può darsi che non tutte le corde siano marcite nella sua animuccia di strozzina. Tante cose, Kanavkin.
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