Mikhail Bulgakov - Il Maestro e Margherita

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Non riuscí ad attuare appieno questo proposito, e, volente o nolente, dovette rispondere a tutta una serie di domande, sia pure con brevi e tetre parole. Gli chiesero proprio tutto quello che riguardava la sua vita passata, fino alla scarlattina che aveva fatto una quindicina d’anni prima. Dopo aver riempito un’intera pagina su Ivan, voltarono il foglio, e la donna in bianco passò a fargli domande sui parenti. Cominciò una litania: chi era morto, quando e di che, se beveva, se aveva avuto malattie veneree, e via di questo passo. A conclusione, gli chiesero di raccontare gli avvenimenti che si erano svolti alla vigilia agli stagni Patriarscie, ma senza insistere molto, e non si stupirono della faccenda di Ponzio Pilato.

A questo punto, la donna cedette Ivan all’uomo, che si occupò di lui in modo diverso, senza piú fargli domande. Gli misurò la temperatura, gli sentí il polso, lo guardò negli occhi illuminandoli con una lampada. Poi in aiuto all’uomo venne l’altra donna, e Ivan fu punto alla schiena, ma non in modo doloroso, col manico di un martelletto gli tracciarono certi segni sulla pelle del petto, gli picchiettarono con dei martelletti le ginocchia, facendogli sobbalzare le gambe, gli punsero il dito per prelevarne del sangue, lo punsero alla piega del gomito, gli infilarono alle braccia strani braccialetti di gomma…

Ivan sogghignava amaramente tra sé e pensava che tutto si era risolto in modo sciocco e strano. Ma pensate! Voleva avvertire tutti del pericolo rappresentato dal misterioso consulente, si preparava a catturarlo ed era riuscito soltanto a finire in un misterioso studio medico per raccontare sciocchezze sullo zio Fëdor che si sbronzava a Vologda. Che situazione intollerabilmente stupida!

Finalmente lo lasciarono andare. Fu ricondotto nella sua stanza, dove gli diedero una tazza di caffè, due uova alla coque e pane bianco col burro. Dopo aver mangiato e bevuto tutto, Ivan decise di aspettare qualche capo della clinica e ottenerne attenzione e giustizia.

Non ebbe da aspettare a lungo. All’improvviso la porta si aprí, ed entrò molta gente in camice bianco. Davanti a tutti procedeva un uomo sui quarantacinque anni, rasato alla perfezione come un attore, dagli occhi simpatici ma assai penetranti, e dai modi cortesi. Tutto il seguito gli tributava segni di attenzione e rispetto, per cui il suo ingresso risultò molto solenne. «Come Ponzio Pilato!», venne fatto di pensare a Ivan.

Sí, questo era certamente il capo. Egli sedette su uno sgabello, mentre tutti gli altri rimasero in piedi.

— Dottor Stravinskij, — si presentò, e guardò Ivan con espressione amichevole.

— Ecco, Aleksandr Nikolaevič, — disse con voce sommessa uno dalla linda barbetta, e porse al capo la cartella, piena di dati, di Ivan.

«Hanno imbastito un intero dossier», pensò Ivan. Con occhi che denotavano abitudine il capo scorse il foglio, borbottando «Uhu, uhu…», e scambiò con gli altri qualche frase in una lingua poco nota. «Parla pure latino, come Pilato», pensò mestamente Ivan. Ma una parola lo fece sussultare: era la parola «schizofrenia», quella, ohimè, pronunciata ieri dal maledetto sconosciuto agli stagni Patriarscie, e ripetuta adesso dal professore Stravinskij. «Anche questo sapeva!», pensò allarmato Ivan.

Il capo, evidentemente, si era posto la regola di essere d’accordo su tutto e di rallegrarsi per tutto quello che gli dicevano gli astanti e di esprimere questo con la parola: «bravo».

— Bravi! — disse Stravinskij, restituendo il foglio a qualcuno, e si rivolse a Ivan.

— Lei è poeta?

— Sí, — rispose tetro Ivan, e per la prima volta sentí un’inspiegabile ripugnanza per la poesia, e i suoi versi, che subito gli vennero in mente, gli riuscirono sgradevoli.

Con una smorfia, egli chiese a sua volta a Stravinskij: — Lei è professore?

Stravinskij chinò la testa con premurosa cortesia.

— Lei è il capo qui dentro? — continuò Ivan. Anche a questa domanda Stravinskij rispose con un cenno affermativo.

— Ho bisogno di parlarle, — disse in modo significativo Ivan Nikolaevič.

— Sono venuto apposta per questo, — replicò Stravinskij.

— Ecco di che si tratta, — cominciò Ivan, sentendo che era giunta la sua ora. — Mi fanno passare per pazzo, nessuno mi vuole ascoltare!…

— Oh no, l’ascolteremo con la massima attenzione, — rispose Stravinskij, serio e tranquillizzante, — e non permetteremo a nessuno di farla passare per pazzo.

— Allora ascolti: ieri sera, agli stagni Patriaršie, ho incontrato un personaggio misterioso, magari straniero, che sapeva in anticipo della morte di Berlioz e aveva visto personalmente Ponzio Pilato.

Il seguito ascoltava il poeta senza fiatare e senza muoversi.

— Pilato? Quello che è vissuto al tempo di Gesú Cristo? — chiese Stravinskij, socchiudendo gli occhi in direzione di Ivan.

— Proprio quello.

— Aha, — disse Stravinskij, — e quel Berlioz è morto sotto un tram?

— Ma sí, proprio ieri sera, quando c’ero anch’io, è stato maciullato da un tram ai Patriaršie; mentre quel tipo equivoco…

— Il conoscente di Ponzio Pilato? — chiese Stravinskij, che evidentemente si distingueva per il gran comprendonio.

— Proprio lui, — confermò Ivan, studiando Stravinskij. Ebbene, aveva detto in anticipo che Annuška avrebbe rovesciato l’olio di girasole… E lui è scivolato proprio in quel punto! Non è una bella storia? — chiese Ivan con fare significativo, sperando che le sue parole avrebbero prodotto un’impressione profonda.

Ma l’impressione non ci fu, e Stravinskij con molta semplicità pose la seguente domanda:

— E chi è questa Annuška?

La domanda imbarazzò un poco Ivan, e il suo volto si contrasse.

— Qui Annuška non ha nessuna importanza, — disse innervosito. — Lo sa il diavolo chi è. Una scema della Sadovaja. L’importante è che lui sapeva in anticipo, capisce, in anticipo, dell’olio di girasole. Mi capisce?

— La capisco benissimo, — rispose serio Stravinskij, e toccando il ginocchio del poeta con la mano, soggiunse — Non si inquieti e continui.

— Continuo, — disse Ivan, cercando di rispondere al professore nel suo stesso tono, e sapendo già, per amara esperienza, che solo la calma l’avrebbe potuto aiutare. Bene, quel tipo spaventoso (non è mica vero che sia un consulente!) ha una forza sovrannaturale!… Per esempio, lo insegui, e non riesci a raggiungerlo… E con lui ce ne sono altri due, buoni anche quelli, ma a modo loro: uno lungo, con le lenti spaccate, e poi un gatto di dimensioni incredibili, che viaggia da solo in tram. E poi, — Ivan, che nessuno interrompeva, parlava con sempre maggior calore e convinzione, — è stato personalmente sul balcone di Ponzio Pilato, e su questo non c’è nessun dubbio. Che roba, eh? Bisogna arrestarlo subito, se no combinerà guai indescrivibili.

— E lei cerca di farlo arrestare? L’ho capito bene? chiese Stravinskij.

«È intelligente, — pensò Ivan, — bisogna ammettere che anche tra gli intellettuali si trovano persone d’intelligenza non comune, non lo si può negare», e rispose:

— Giustissimo! Mi dica lei, come potrei non farlo? Intanto mi trattengono qui con la forza, mi puntano una lampadina negli occhi, mi fanno il bagno, mi fanno domande su mio zio Fedja!… È un pezzo che non è piú al mondo! Esigo di essere immediatamente rilasciato!

— Ma sí, bravo, bravo, — commentò Stravinskij. — Adesso tutto è chiaro. Infatti, che senso ha trattenere in clinica una persona sana? Bene, la dimetterò subito, se lei mi dirà che è normale. Non se me lo dimostrerà, ma se me lo dirà soltanto. Dunque lei è normale?

A questo punto subentrò un silenzio assoluto, e la donna grassa che al mattino si era occupata di Ivan, guardò con venerazione il professore, mentre Ivan pensò di nuovo: «È decisamente intelligente!»

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