Giacomo Casanova - Il Duello

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Senza determinarsi a nulla giunse a gran trotto alla casa del principe palatino, dove trovò alla assemblea il fiore della nobiltà.

Il principe, tosto che il vide, fece la partita di tresette, e, come solea, sel prese per compagno; ma egli giocando non facea che spropositi, de' quali rimproverato dal principe, gli rispose ch'era con la testa quattro leghe lontano dal loco in cui giocava. Il principe, dicendo con aria serena che bisogna aver la testa non altrove che là dove si gioca, gettò le carte sulla tavola, e la partita finì. Arrivò allora un uffiziale di corte a dire che il re non sarebbe venuto a cena, onde il palatino ordinò che le tavole fossero subito imbandite.

Dispiacque molto al povero forastiere ingiuriato che il re non venisse, poiché avrebb'egli comunicato a S. M. l'ingiuria che il Postòli aveagli fatta, ed il sovrano avrebbe accomodato tutto, obbligando l'ingiusto insultante a dare all'offeso qualche sufficiente risarcimento; ma l'affare dovea definirsi in modo assai diverso.

Sedettero tutti a cena, ed al capo della tavola bislunga egli sedea presso il principe palatino, alla sua sinistra. Parlavasi di cose liete, ed a tutt'altro egli pensava fuori che a parlare della sua disgrazia, che avrebbe desiderato che potesse rimanere occulta a tutta la terra, allorquando a mezza la cena arrivò il principe Gaspare Lubomirski generale al servigio di Russia, che andò a sedere al capo opposto della tavola, alla quale trenta in circa potevano esser quelli che mangiavano. Quando questo principe si vide in faccia di lui all'altro capo, gli disse ad alta voce che gli dispiacea della lacrimevole avventura ch'eragli sopravvenuta al teatro; a tal complimento, che andò a ferirgli l'anima, e ch'egli buonamente sperava che non avesse ad essergli fatto da alcuno, per non essersi l'affare ancora divulgato, non ebbe la forza di rispondere, ma nulla di meno il principe Gaspare seguitò, forse malignamente, a confortarlo, dicendogli che l'offensore era ubriaco, che convenia sprezzar la cosa, che la stima, che tutti faceano della sua persona, non sarebbe a cagione di ciò per diminuirsi, e cento simili crudelissimi conforti che, invece di calmarlo, l'accendevano, della qual cosa il palatino avvedendosi, gli domandò con bontà a bassa voce, che affare era quello: egli pregò Sua Altezza ad aspettare fino dopo cena, che testa a testa glielo comunicherebbe. Vedevasi però tutti all'altro capo della tavola a parlare e ad ascoltare il principe Gaspare, mentre l'altro moria di vergogna, vedendo fissi sopra di lui gli occhi di tutta la compagnia da quel lato.

Terminatasi la cena, il principe palatino il trasse in disparte, e da esso fedelmente circonstanziata intese tutta la miserabile istoria. Avea quel principe, ascoltandolo, il dolore dipinto sul maestoso suo volto, ed arrossia che fosse in Varsavia un uomo onesto sottoposto a simili vigliaccherie.

Terminata la sua narrazione, ei domandò al principe cosa il consigliasse di fare nel caso in cui si trovava; alla qual domanda rispose ch'era suo costume di non dar mai ad alcuno il suo consiglio in pari casi: conviene all'uomo onesto in simili frangenti, diss'egli sospirando, far molto, o nulla affatto. Così dicendo il principe si ritirò, e l'altro, fattosi dare la sua pelliccia, uscì dal palazzo, entrò nel suo legno, e si avviò alla sua casa, dove coricossi subito e dormì saporitamente sei ore. Svegliato prese certa medicina, che erano già due settimane che prendea, per guarire da certo male che allora l'affliggea e che l'obbligava dopo presa a starsene per lo meno sei ore a letto. Fatto ciò, si accinse a spicciare le lettere sue e quelle che indispensabilmente dovea in quel giorno di mercordì, giorno in cui partia il regio dispaccio per l'Italia, mandar alla corte. Accingendosi a questo lavoro, ricapitolò ciò che gli era avvenuto col Postòli la sera della non ancor scorsa notte; riandò il proprio contegno e ponderò le parole che il principe palatino di Russia gli avea detto, richiesto di consiglio, ed in quelle sagge parole, che glielo negavano, ei lo trovò.

Molto, o nulla.

Pensò prima al nulla, e si ricordò che Platone nel Gorgia dicea che l'eroismo consiste nel non far ingiuria ad alcuno, onde ne segnia che dovea più pregiarsi colui ch'era capace di soffrirla, che l'altro che impunemente avea saputo farla.

Che non essendo egli uomo di guerra, mestiere che chi il professa dee convincere il mondo che non fa caso della vita, e fuggir la nota di spauroso come fugge l'infamia, era dispensato dalla sovrana legge di uccidere chi l'insultò o di farsi dallo stesso uccidere; onde potea con intrepida ed altera fronte dichiararsi seguace del gran filosofo, che dice chiaro nell'ep. VII, ch'è meno disonore sopportar gravissime ingiurie che farle. Pensò poi anche che era questa la massima di un cristiano, e si rimproverò che Platone si fosse presentato alla sua mente un momento prima del Vangelo. Ma, riflettendo poi col maledetto orgoglio attaccato alla natura umana, esaminò il modo del pensare de' filosofi della corte, li quali espressamente o tacitamente vogliono che l'onor regni e che l'onore sia modellato dal codice militare, per accelerare il trionfo del quale i monarchi medesimi ne portano addosso pomposamente le insegne. Egli vide che, se l'avesse fatta alla platonica, sarebbe stato un buon cristiano ed un bravo filosofo, ma non meno perciò disonorato, e vilipeso, e forse cacciato via dalla corte, o escluso dalle nobili assemblee con maggior obbrobrio.

Tale è il nostro secolo. Tocca alla filosofia a lagnarsene, e quelli che vogliono seguire le di lei massime debbono abitare da per tutto fuori che nelle corti.

Se il povero oltraggiato avesse preso il partito di pacificamente ingoiare l'amara pillola, tacendo o palesando la cosa a quella neutra torma d'oziosi che sfoggiano il freddo e vuoto titolo di comuni amici, avrebbe trovato in folla mediatori che, con l'apparenza del maggior zelo, si sarebbero impegnati di riconciliare i discordi; ma egli sapea qual era ordinariamente de' mediatori il costume: tutti per massima preliminare più favorevoli all'offensore che all'offeso; tale essendo la malignità dell'umana natura, che gode sempre del male avvenuto, ed è perciò portata sempre a favorire chi l'ha fatto, ridendo in sé di chi ha sofferto l'oltraggio e studiando di sminuirlo con sofistiche ragioni, sotto lo specioso pretesto del desiderio del bene della pace.

Un vero amico d'un uomo oltraggiato, o lo aiuta a vendicarsi, o fa come fece il principe palatino di Russia, il deplora e lascia ch'ei faccia ciò che gli viene suggerito dal sentimento d'onore ch'egli ha, che non è dato ad alcuno l'indovinare di qual calibro sia. Il mediatore in generale fa sempre più o meno di ciò che l'offeso può desiderare. Un uomo che opera così non ha d'amico altro che il nome; nome che non merita quando pretende che l'amico voglia, non ciò che vuole, ma ciò che a parer suo dee volere, e che non si contenta di consigliare, ma, ergendosi, affetta superiorità di mire e di prudenza. Queste sono parole di Cicerone; e per questo le distinsi.

Fattesi dall'oltraggiato queste riflessioni in tempo assai minore di quello ch'io ho impiegato a scriverle, si determinò a far molto. Si risolse a sfidare a duello quel cavaliere che l'avea vilipeso, unico modo in que' paesi ed in altri ancora col quale un uomo onesto, offeso da chi non ha sopra di lui diritto alcuno, può lavare la macchia che la ricevuta ingiuria gl'impresse.

Se gli offesi, chiamando in giustizia gli offensori, potessero lusingarsi di esser per ottener dal giudice una pingue sentenza in loro favore, potrebbe darsi che i duelli non avvenissero tanto di frequente, malgrado le infelici massime del punto d'onore; ma l'esperienza fa che non possano sperar niente più di una fredda scusa o di una ridicola ritrattazione, che secondo il parer di certi pensatori sembra più atta ad accrescere la macchia che a toglierla. In Inghilterra però un uomo che ha detto ad un altro una parola offensiva, se tradotto in giustizia non può provare di avergli detto il vero, è mezzo rovinato.

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