Separare i tuorli e le chiare di 2 uova. Sbattere i tuorli, aggiungere un pizzico di sale. Quando il composto sarà ben amalgamato, aggiungere lentamente, mescolando con un cucchiaio di legno, 1 tazza e 1 cucchiaio di farina. Montare le chiare d’uovo e incorporarle al miscuglio. Lasciar riposare per un’ora prima di usare.
RANE ALLA PANNA
Mettere 100 zampe di rane in una padella con un quarto di tazza di burro a fuoco medio, aggiungere mezzo cucchiaino di sale e un quarto di cucchiaino di pepe. Mescolare con un cucchiaio di legno finché assumeranno un colore dorato. Toglierle dalla padella, sistemarle su un piatto di portata riscaldato in precedenza. Tenere in caldo. Mettere nella stessa padella 1 tazza di panna intera ben calda e 1 tazza di salsa béchamel . Mescolare col burro rimasto nella padella, staccando bene dal fondo e dai lati. Aggiungere 4 cucchiai di burro. Non far bollire. Mescolare fino a quando il burro si sarà sciolto, passare al setaccio e versare sopra le rane. Cospargere con 1 cucchiaio di prezzemolo finemente tritato. Servire ben caldo.
È il modo migliore di cucinare le rane.
Parecchi anni fa gustammo una colazione in un ambiente molto insolito. Io e Gertrude Stein fummo invitate con alcuni amici, in una proprietà della Camargue, una penisola di circa quindici chilometri quadrati nel delta del Rodano. Partimmo in macchina, una mattina di fine autunno, verso la distesa di paludi deserte, passando sopra ponti di barche, fino alla tenuta di S., nella quale doveva aver luogo la riunione e la colazione. La casa era molto vecchia e non ci viveva nessuno tranne il custode. Il padrone la usava solo quando andava a caccia o a pesca con gli amici. Gli uomini tornavano con pesci e cacciagione che venivano consumati a colazione (i francesi non hanno l’abitudine di far frollare la selvaggina). Nella sala da pranzo, enorme, c’era un camino con un gran fuoco. Le donne prepararono la tavola con i piatti pronti e gli oggetti che avevano portato con sé, patés di carne e di pollo da riscaldare, gelatine, burro e uova, bicchieri, argenteria e tovaglie. Io e Gertrude Stein venimmo intanto accompagnate ad ammirare due fenicotteri che bevevano e alcuni piccoli tori bianchi, i discendenti dei tori selvaggi. Gli uomini, di ritorno col carniere pieno, furono accolti con rumorose esclamazioni di benvenuto. Si scelsero subito i pesci e la selvaggina da cucinare. Furono affidati al custode perché li spennasse e li pulisse, sotto la supervisione di qualcuna delle donne. Il fuoco del camino venne subito ridotto, in modo da poterlo usare per gli arrosti allo spiedo. Le anatre selvatiche che erano state scelte non ci avrebbero messo molto a cuocere. Sullo spiedo ce ne stavano otto alla volta, e altre sarebbero state messe ad arrostire mentre si tagliavano e si mangiavano le prime. Le lamprede vennero spellate e pulite (gli uomini erano molto orgogliosi di averle pescate in quella stagione nel vicino Rodano), tagliate a lunghi pezzi, ciascuno avvolto in una fetta sottile di lardo, e cotte alla griglia, sulla brace, mentre una salsa speciale veniva preparata in uno scaldavivande d’argento molto antico. Ecco la ricetta: SALSA PER LAMPREDE O ALTRI PESCI ALLA GRIGLIA
Per 750 gr circa di pesce, sciogliere 4 cucchiai di burro in una casseruola, aggiungere 1 cucchiaio di farina. Continuare a mescolare, aggiungendo lentamente 1 tazza di acqua calda, 1 tazza di Madera o porto, 250 gr circa di funghi tritati, 1 piccola cipolla tritata, un quarto di cucchiaino di sale, 3 spicchi d’aglio pestato, 6 grani di pepe, un rametto di timo e uno di basilico. Lasciar cuocere fino a quando il composto si sarà ridotto di metà. Passare al setaccio e schiumare.
Le ultime operazioni, in effetti, vennero trascurate, in quel clima di informalità.
Le anatre, accuratamente cosparse col burro messo nella padella sotto lo spiedo e con il loro stesso grasso che ci colava in continuazione, vennero cotte per un quarto d’ora in più che se fossero state messe in forno. Molto più a lungo di quanto piacesse a me e Gertrude Stein. Ai francesi non piace vedere tracce rosse quando tagliano la selvaggina, ma amano l’agnello poco cotto. Fu una colazione pantagruelica, con un numero infinito di piatti a precedere e seguire le due portate principali. Gli ospiti partirono poi per le direzioni più diverse, ma un gruppo di noi decise di passare la notte alla locanda di Les Baux per vedere la Camargue al chiaro di luna. Per fortuna mi ero messa in borsa un barattolo di caffè americano in polvere, proprio quello che ci voleva per la colazione della mattina dopo, e una vera novità per i nostri amici francesi.
Ricevemmo molti altri inviti del genere in case francesi; i pasti si assomigliavano tanto che dopo un po’ non riuscimmo più a distinguerli, l’uno dall’altro. Non è certo un rimprovero. È un pregio che i francesi si limitino a quello che considerano più soddisfacente... al loro ideale, cioè. Raggiungono tanta armonia ed esperienza nella preparazione dei cibi da giustificare l’orgoglio con cui considerano la loro abilità in cucina e la loro grande tradizione.
Prima di arrivare a Parigi mi interessavo di cibo ma non di cucina. Quando, nel 1908, andai a vivere con Gertrude Stein in Rue de Fleurus, la mia amica disse subito che la domenica sera voleva una cena americana, ne aveva abbastanza della cucina italiana e francese; la domestica avrebbe avuto la serata libera e io la cucina tutta per me. E così cominciai a preparare i semplici piatti ai quali ero stata abituata nelle case della San Joaquin Valley, in California... pollo in fricassea, focaccia di granturco, torta di mele e torta di limone. Poi, quando la pasta di queste torte ripiene ricevette la difficile approvazione di una buongustaia come Gertrude Stein, decisi di preparare anche un pasticcio di carne tritata, e il giorno del Ringraziamento mettemmo in tavola un tacchino, arrostito da Hélène, la cuoca, ma farcito con un ripieno preparato da me. Visto che Gertrude Stein non riusciva a decidere se preferiva funghi, castagne oppure ostriche, nel ripieno, decisi di usare tutt’e tre gli ingredienti. L’esperimento ebbe successo e venne ripetuto spesso; a poco a poco quel piatto entrò a far parte del mio repertorio, che si andava allargando sempre più man mano che cresceva in me l’audacia e il desiderio di nuovi esperimenti.
Un giorno che Picasso doveva venire a colazione da noi preparai un pesce in un modo diverso dal solito, pensando che il pittore l’avrebbe trovato molto divertente. Scelsi un bel branzino striato e lo cucinai seguendo i dettami di mia nonna che non era certo una gran cuoca e metteva piede in cucina molto di rado, ma faceva un gran teorizzare, sulla cucina come su un sacco di altre cose. La nonna sosteneva che i pesci, dato che trascorrevano la vita nell’acqua, una volta pescati, non dovevano avere ulteriori contatti con l’elemento in cui erano nati e cresciuti. Raccomandava quindi di arrostirli, oppure di affogarli nel vino, nella panna o nel burro.
BRANZINO PICASSO
Preparai un court-bouillon di vino bianco secco e grani di pepe, sale, una foglia di alloro, un rametto di timo, una cipolla con un chiodo di garofano, una carota, un porro e un mazzetto di fines herbes . Feci bollire il tutto per un’ora nella pentola, poi misi da parte a raffreddare. Sistemai il pesce sulla gratella della pentola, la coprii e portai a bollore a fuoco lento, cuocendo per 20 minuti. Tolsi la pentola dal fuoco e lasciai raffreddare il pesce nel court-bouillon . Poi lo scolai, lo asciugai e lo disposi sul piatto da pesce. Poco prima di servirlo coprii il pesce con una normale maionese, e lo decorai con una siringa da pasticciere piena di maionese rossa ottenuta non con l’aggiunta di ketchup (orrore degli orrori), ma di concentrato di pomodoro. Decorai il piatto con uova sode passate al setaccio, bianchi e tuorli separatamente, tartufi e fines herbes finemente tritate.
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