Margot era molto simpatica a tutte le persone che venivano a trovarci. Cucinava bene ed era molto tranquilla. Sapeva lanciare in aria le crêpes e dar fuoco ai dolci alla fiamma mentre li portava dalla cucina alla sala da pranzo. Se l’avessimo incoraggiata, si sarebbe anche occupata della disposizione dei fiori, e con molto buon gusto, senza dubbio, a giudicare da come presentava i piatti in tavola. Preparava spesso la INSALATA ALEXANDRA
Far bollire 750 gr di patate con la buccia fino a quando saranno tenere. Non cuocerle troppo. Far bollire in acqua salata 750 gr circa di carote. Tagliare a pezzettini la parte bianca di 1 sedano. Quando le patate saranno tenere, sbucciarle e tagliarle a fettine sottili. Fare la stessa cosa con le carote. Mettere da parte 1 patata e 1 carota. Mescolare le tre verdure in una terrina. In un’altra terrina, più piccola, mescolare 1 cucchiaio e mezzo di aceto, 4 cucchiai di olio d’oliva, 1 cucchiaino di sale, mezzo cucchiaino di pepe, mezzo cucchiaino di senape in polvere. Versare sulle verdure affettate e lasciar macerare per un’ora. In un’altra terrina mettere mezza tazza di prosciutto cotto magro tagliato a cubetti, 1 tazza di funghi cotti per 6 minuti in acqua bollente, un quarto di cucchiaino di sale, uno spruzzo di succo di limone e 2 mele grattugiate. Mescolare il contenuto delle due terrine con 1 tazza di maionese molto densa. Ammonticchiare in un’insalatiera. Cospargere generosamente di prezzemolo e dragoncello tritati e di aglio di serpe tritato finissimo. Decorare la base con fettine di carota alternate a fettine di patata.
Margot non aveva una grande esperienza di cucina ma le piaceva imparare. Tutt’e tre le sorelle avevano il genio della cucina. Col tempo Margot sarebbe senz’altro diventata brava quanto Jeanne. Margot continuava ad andare ai balli bretoni in compagnia di una cugina, e aveva tanto successo che alla fine, con l’approvazione di Caroline, venuta apposta da Parigi, sposò un giovanotto che aveva conosciuto in una di quelle occasioni. I tre anni in cui avevamo avuto le tre sorelle come domestiche erano stati felici, privi di preoccupazioni. Gertrude Stein diceva sempre che nulla le sembrava più innaturale del modo in cui una domestica, una completa sconosciuta, entrava nella tua casa e nella tua vita solo per poi sparire e uscirne per sempre. Le cose non andarono letteralmente così, per quanto riguarda le tre sorelle.
Quando fu evidente che gli amici del vicinato non sarebbero riusciti a procurarci una nuova domestica, decidemmo di provare con l’ufficio di collocamento. Furono momenti umilianti, non so se più per me o per le aspiranti domestiche. Decisi di non ripeterli. Fu allora che cominciarono le incerte, instabili, imprevedibili ma divertentissime esperienze con gli indocinesi.
Trac arrivò da noi tramite un annuncio che avevo messo sul giornale in un momento di disperazione. L’inizio era accattivante, dati i tempi: Due signore americane cercano ... Si presentarono parecchi candidati. Scelsi subito Trac. Era un uomo dal sorriso aperto, dai gesti precisi e misurati. Parlava francese con un vocabolario di una ventina di parole. Per indicare le fragole diceva le non ciliege. L’aragosta era il grande gambero e l’ananas la pera non pera. La cucina cinese era varia, delicata e nutriente. Guardare Trac, in un grembiule immacolato, tagliuzzare con gesti velocissimi frutta e verdura, stuzzicava l’appetito. Aveva solo un difetto: sapeva fare pochissimi dolci, e solo i più semplici. Gli insegnai a prepararne alcuni, e lui si divertiva come un bambino. Ma prima che gli insegnassi, una sera ci servì una torta glassata e decorata che ci lasciò molto dubbiose. Aveva un’aria familiare. L’hai fatta tu la torta, Trac? gli chiesi. Lui rispose di sì, ma io improvvisamente ricordai di averne vista una uguale, per anni, nella vetrina di un pasticciere di seconda categoria. Sei sicuro? continuai implacabile. Trac fece di sì con la testa e ruppe in una risata allegra, innocente e contagiosa. Ci mettemmo a ridere tutt’e tre come matti. Quella sera non dicemmo nient’altro, ma la mattina dopo gli dissi con aria seria, non devi farla mai più quella torta, non ci è piaciuta. Con un gran sorriso, Trac disse, io sapere, io sapere.
Naturalmente non c’era modo di sapere come facesse Trac a preparare quei suoi fantastici piatti. Non che volesse mantenere il segreto a tutti i costi, ma gli piaceva star solo in cucina. In seguito, dopo che ci aveva lasciato per due volte, era tornato e si era sposato, sua moglie mi rivelò gli ingredienti di alcuni dei piatti che ci aveva preparato, ma nemmeno lei era riuscita a sapere le dosi. Trac diceva di non curarsi delle dosi.
Trac ci lasciò la prima volta preso da un attacco di irrequietezza che lo spinse a cambiare. Se ne andò dicendo che sarebbe tornato e ci avrebbe portato dei doni. L’anno con Trac ci aveva guastate. Gli chiesi di trovarci un altro indocinese. Con quella sua aria infantile, aggraziata, ci disse che un altro indocinese non avrebbe fatto al caso nostro, nessuno era simpatico come lui.
Ed era vero. Scoprimmo presto che gli altri non avevano nessuna delle sue deliziose debolezze. E ne passarono parecchi, in casa nostra. Uno era un giocatore, e quando perdeva (perdeva sempre, dato che quando vinceva non lavorava) metteva il muso; un altro beveva, il che lo rendeva insopportabile in una casa piccola come la nostra; un altro ancora adorava le donne e rubava per farle contente; e un altro ancora era drogato e non riusciva a lavorare. Di tutti quelli che provammo prima del ritorno di Trac, il migliore fu Nguyen, uno dei tre re dei cuochi che avremmo avuto al nostro servizio durante la lunga e variata esperienza di domestici. Beveva, ma con moderazione e senza conseguenze dannose, dato che riusciva a cucinare in modo meraviglioso. Era stato a servizio in casa del governatore generale francese in Indocina, che l’aveva portato con sé in Francia. Non era più giovanissimo, quando venne a lavorare da noi. Lo portammo a Bilignin per le lunghe vacanze estive, ma era ovvio che non poteva cucinare quei suoi piatti elaborati e occuparsi anche della casa, più grande, e così convenimmo di mandare a chiamare un suo amico di Parigi, che avrebbe badato ai lavori domestici. Una sera buia io e Gertrude Stein andammo in macchina alla stazione a prendere l’amico. Era un ragazzo di belle maniere. La mattina dopo trovammo lui e Nguyen in cucina. Litigavano. Nguyen disse che l’amico aveva un carattere difficile. Sembrava non avere molta dimestichezza con le faccende di casa. Litigavano sempre. Dopo tre giorni Nguyen dichiarò che il ragazzo non andava bene e che noi (io e Nguyen) dovevamo rimandarlo a Parigi. Così parlammo al ragazzo. Il risultato fu che Nguyen tornò felice e contento ma sovraffaticato dal lavoro. La vedova Roux cominciò a venire un giorno sì e uno no invece che due volte alla settimana. Lei e Nguyen si sopportavano a vicenda nei limiti del possibile. Tra di loro c’era la stessa differenza evidente fra i nostri due cani, il piccolo chihuahua e il grosso barboncino bianco. Non era certo una coppia innamorata.
Nguyen preparava piatti cinesi e francesi, e sempre in modo perfetto, ma non gli andava di includere nello stesso menu portate delle due cucine. Era il suo giusto senso dell’equilibrio a impedirglielo. I nostri amici francesi e americani non erano d’accordo con lui, consideravano eccessivo un menu di soli piatti cinesi. Raggiungemmo un compromesso. La prima portata (minestra, pesce o molluschi con pasta o riso) sarebbe stata cinese. Il resto francese. Si trattava di un piano per mettere surrettiziamente in evidenza la superiorità della cucina cinese. Dopo molto tempo, Nguyen ci confidò come, per la sua delicatezza e per il suo sapore preciso, la cucina cinese venisse immancabilmente ricordata dagli ospiti, che invece dimenticavano subito le successive pietanze francesi. Io e Gertrude Stein consideravamo Nguyen deliziosamente cinese.
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