Il principe Ippolito, che se ne stava sdraiato in poltrona con le gambe al disopra d’uno dei bracciuoli, si mise a ridere.
— Ebbene, sì, non lo nego. – disse.
— Oh don Giovanni! oh serpente! – si esclamò in coro.
— Voi non sapete, Andrea, – venne su Bilibin, – che tutti gli orrori perpetrati dall’armata francese... per poco non ho detto dalla russa... sono un nulla a confronto delle stragi che costui ha fatto fra le donne.
— La donna è l’amica dell’uomo, – sentenziò Kuraghin, sbirciando col monocolo i suoi piedi penzoloni.
Bilibin e i nostri risero a gola spiegata, guardandolo negli occhi. Il principe Andrea si accorse, che questo Ippolito, il quale, bisogna pur confessarlo, lo avea quasi fatto diventare un marito geloso, non era che lo zimbello di quel circolo.
— No, bisogna proprio che ve lo serva come un manicaretto, – gli bisbigliò Bilibin. – È stupendo, quando discorre di politica; state a sentire.
E avvicinatosi a Kuraghin, intavolò con lui un discorso sugli eventi del giorno. Il principe Andrea e gli altri si strinsero loro intorno.
— Il gabinetto di Berlino, – cominciò gravemente Ippolito, girando gli occhi dall’uno all’altro, – non può esprimere il suo parere sull’alleanza, senza dichiarare, come nell’ultima sua nota... voi capite... del resto, se l’imperatore non vien meno alla sostanza dei nostri patti... Ma no, aspettate... non ho finito... Io so, io credo, che l’intervento sarà più sicuro del non intervento... Ma non si può dire che la cosa sia troncata col rifiuto del nostro dispaccio del 18 Novembre. Ecco come finirà tutta la faccenda.
— Eh, eh! ti riconosco, Demostene, dal ciottolo che ascondi fra le tue labbra d’oro, – disse Bilibin, facendosi calar sulla fronte aggrinzita, dalla soverchia soddisfazione, tutta la massa dei capelli.
Vi fu una risata generale. Ippolito rideva più di tutti, ansimando, torcendo il viso, poco meno che soffrendo.
— Ed ora, signori, date retta, – disse Bilibin. – Bolconski è mio ospite, e a me conviene fargli godere tutti i piaceri della vita di qua. Se fossimo a Vienna, l’impresa sarebbe facile; ma qui, in questo stambugio di Moravia, è un altro affare, ed io conto sul vostro aiuto. Bisognerà fargli gli onori di Brünn. Voi incaricatevi del teatro, io della società; voi, Ippolito, beninteso, delle donne.
— Lo presenteremo ad Amelia, un bocconcino da re! – disse uno dei nostri, baciandosi la punta delle dita.
— In somma, penserete voi ad instillare sensi più umani a questo soldato sanguinario.
— Sarà difficile, signori, – obbiettò Andrea, – ch’io mi giovi delle vostre profferte, ed è già ora di andarmene.
— Dove?
— Dall’imperatore.
— Oh, oh, oh!
— Ebbene, a rivederci, Bolconski! A rivederci, principe! Vi aspettiamo a pranzo! Lasciate a noi la cura di tutto il resto, – suonarono varie voci.
— Fate il possibile per levare a cielo l’ordine delle marcie e l’abbondanza delle vettovaglie, quando parlerete con l’imperatore, – gli suggerì Bilibin, accompagnandolo fino all’anticamera.
— Magari, – rispose Andrea, – ma, per quanto ne sappia, direi una bugia.
— Ebbene allora, parlate quanto più potete. Le udienze sono la sua passione... ma difficilmente apre la bocca... Non sa discorrere, come vedrete.
Al circolo di Corte, l’imperatore Francesco guardò fiso al principe Andrea, che occupava il posto assegnatogli nel gruppo degli ufficiali austriaci, e con la sua testa allungata gli fece un cenno di saluto. Ma dopo il circolo, l’aiutante ossequioso del giorno innanzi comunicò a Bolconski che Sua Maestà desiderava riceverlo in udienza.
L’imperatore lo accolse, stando ritto in mezzo alla camera. Pareva impacciato, quasi non sapesse che cosa dire, e arrossiva.
— Dite, quando s’impegnò l’azione? – domandò finalmente.
Il principe Andrea rispose. Altre domande, non meno semplici, tennero dietro alla prima: «Sta bene Kutusow? Da quando ha lasciato Krems?» e simili. Si sarebbe detto che unica sua preoccupazione fosse di formulare un dato numero di domande. Le risposte, si vedeva chiaro, non lo interessavano.
— A che ora cominciò l’attacco?
— Non potrei dire, Maestà, a che ora cominciò sul fronte; ma a Dürenstein, dove io mi trovavo, si attaccò alle sei di sera...
Bolconski si animava, pronto ad esporre partitamente tutte le vicende di cui era stato testimone. Ma l’imperatore sorrise e l’interruppe.
— Quante miglia?
— Di dove e fin dove, Maestà?
— Da Dürenstein a Krems.
— Tre e mezzo, Maestà.
— I Francesi hanno abbandonato la riva sinistra?
— Secondo gl’informatori, gli ultimi passarono il fiume la notte stessa con le zattere.
— C’è foraggio bastante a Krems?
— In verità, il foraggio...
— E a che ora fu ucciso il generale Schmidt?
— Alle sette, mi pare.
— Alle sette? Ah, che peccato! che peccato!
L’imperatore ringraziò e s’inchinò. Uscito appena, il principe Andrea fu subito circondato da una folla di cortigiani. Da tutte le parti, sguardi affabili e melate parole. L’aiutante ossequioso lo rimproverò di non essersi fermato a palazzo, e gli offrì la propria casa. Il ministro della guerra gli si accostò, e gli porse l’ordine di Maria Teresa di terzo grado, di cui Sua Maestà lo insigniva. Il gentiluomo di camera dell’imperatrice lo invitò da parte dell’augusta signora. Anche la granduchessa desiderava vederlo. Egli non sapeva a chi e come rispondere. L’ambasciadore prussiano lo prese per una spalla, lo trasse verso una finestra e prese a discorrer con lui.
Contro le previsioni di Bilibin, la notizia da lui recata fu accolta con gioia. Fu ordinato un Te Deum. A Kutusow fu dato la gran croce di Maria Teresa, a tutta l’armata furono assegnati premii e compensi. Bolconski era assediato d’inviti, e dovette spendere tutta la mattina facendo visite alle principali autorità austriache. Alle cinque di sera, pensando alla lettera da scrivere al padre per descrivergli la battaglia e il ricevimento a Brünn, tornò da Bilibin. All’ingresso della casa, vide fermata una vettura carica di roba. Franz, il cameriere di Bilibin, tirando a fatica un baule, uscì sulla porta.
Prima di recarsi da Bilibin, il principe Andrea s’era provvisto di libri per la campagna, trattenendosi a lungo nella bottega del libraio.
— Che è? – domandò Bolconski.
— Ah, eccellenza! – rispose Franz, deponendo sulla vettura il baule. – Si parte, si va più lontano... Da capo, il brigante ci sta alle calcagna.
— Ma che? che cosa accadde?
Bilibin apparve in quel punto. Contro il solito, pareva agitato.
— No, no, confessate, – disse, – che è proprio peregrina questa storia del ponte di Tabor. Lo han passato senza trovar resistenza.
Il principe Andrea non capiva nulla di nulla.
— Ma di dove sbucate voi, per non sapere quel che sanno oramai tutti i vetturini di piazza?
— Vengo dall’arciduchessa, e nulla ho inteso.
— E non avete notato che tutti fan le valigie?
— No... Ma di che si tratta in somma?
— Di che?... I Francesi han passato il ponte, difeso da Auersperg, e il ponte non è stato fatto saltare, sicchè Murat marcia ora sulla strada di Brünn, e stamane stesso sarà qui.
— Come qui? e come mai non han fatto saltare il ponte, se era minato?
— Sono io che ve lo domando. Nessuno lo sa, e forse nemmeno lo stesso Bonaparte.
— Ma se han passato il ponte, vuol dire che l’armata è tagliata fuori, è perduta.
— E qui sta il nòcciolo, amico mio. Sentite. I Francesi, come v’ho detto, entrano a Vienna. Benissimo. Il giorno appresso, cioè ieri, tre marescialli, Murat, Lannes e Belliard, montano in sella, e via verso il ponte... Sono tre Guasconi, notate... «Signori, dice uno dei tre, voi sapete che il ponte di Tabor è minato e controminato, e che è difeso da opere solidissime e da quindicimila uomini, che hanno ordine di farlo saltare e di contenderci il passo. Ma Sua Maestà l’imperatore Napoleone sarà lietissimo, se noi pigliamo il ponte. Andiamo noi tre, e pigliamolo.» «Andiamo,» consentono gli altri. E così vanno, pigliano il ponte, lo passano, ed ora con tutta quanta l’armata di qua dal Danubio marciano su noi, su voi e sulle vostre comunicazioni.
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