E spianò le rughe della fronte, guardando fiso al suo ospite.
— Adesso, mio caro, sono io che domando a voi perchè? – disse Bolconski. – Vi confesso di non capire. Può darsi che ci siano qui delle sottigliezze diplomatiche superiori alla mia debole intelligenza, ma il fatto è che non capisco..... Mack perde un’intera armata; l’arciduca Ferdinando e l’arciduca Carlo non dan segno di vita ed accumulano errori sopra errori; finalmente Kutusow riporta una vittoria vera e propria, smaga la leggenda della invincibilità dei Francesi, e al ministro della guerra non preme di sapere i particolari del fatto.
— Precisamente per questo, caro il mio principe! Vedete... Urrà!... Evviva!... Per lo zar! per la Russia! ecc... tutto questo sta d’incanto... Ma che importa a noi, dico a noi Corte austriaca, delle vostre gesta gloriose? Portateci qui una bella notizia di vittoria dell’arciduca Carlo o Ferdinando... l’uno vale l’altro, come sapete... magari sopra una compagnia di pompieri zappatori di Bonaparte, sarà un altro par di maniche, e noi faremo sparare i cannoni a salva. Ma la vittoria vostra par fatta a posta per punzecchiare il nostro amor proprio. L’arciduca Carlo non si muove, l’arciduca Ferdinando si copre di vergogna... Voi lasciate Vienna senza difesa, quasi dicendoci: andate con Dio, voi e la vostra capitale... Voi cacciate sotto il fuoco nemico il nostro amato generale Schmidt, e pretendete poi che ci si rallegri della vostra vittoria!... Convenite che non si potrebbe escogitare una notizia più irritante di quella che voi recate. Parola d’onore, par fatto a posta. Senza contare che, se pure la vostra vittoria fosse stata brillantissima, se pure lo stesso arciduca Carlo si fosse immortalato in una battaglia campale, che cosa ci sarebbe di mutato nel corso generale degli eventi? È tardi oramai, visto che Vienna è già in mano dei Francesi.
— Vienna? Vienna occupata?
— Non solo Vienna occupata, ma Bonaparte è a Schönbrunn, e il nostro caro conte di Würbna si reca da lui per prenderne gli ordini.
Dopo la stanchezza, le impressioni del viaggio, l’accoglienza del ministro, e soprattutto dopo il pranzo, Bolconski sentì di non aver bene inteso tutta la gravità di quelle notizie.
— Stamane è stato qui il conte Lichtenfelds, – proseguì Bilibin, – e mi ha mostrato una lettera, nella quale per filo e per segno è descritta l’entrata dei Francesi a Vienna. Il principe Murat e tutto il resto... Voi vedete che la vostra vittoria non è poi quello che vi figurate, e che non è possibile accogliervi a braccia quadre come un salvatore...
— Per conto mio personale, non me ne importa niente, – disse il principe Andrea, cominciando a capire la scarsa importanza della vittoria di Krems di fronte alla presa della capitale. – Ma come mai Vienna occupata? e il ponte? e le famose fortificazioni? e il principe Auersperg che la difendeva?
— Il principe Auersperg sta da questa parte, dalla parte nostra, e difende noi: piuttosto male, per verità, ma ad ogni modo ci difende. E Vienna è da quell’altra parte. No, il ponte non è preso, e forse non lo sarà, perchè è minato e c’è ordine di farlo saltare. In caso contrario, ci troveremmo da un bel pezzo fra i monti di Boemia, e voi con la vostra armata passereste un brutto quarto d’ora fra due fuochi.
— Ma ciò, ad ogni modo, non vuol dire che la campagna sia finita.
— Finitissima, secondo me. E così pensano pure i capoccia di qua, ma non hanno il coraggio di dirlo. Accadrà quel che io preconizzai all’inizio della campagna, cioè che la nostra scaramuccia sotto Dürenstein non taglierebbe il nodo... L’imbroglio, in altri termini, non sarà risoluto dalla polvere, ma da chi ha inventato la polvere. Tutto sta a vedere quel che risulterà dal convegno di Berlino tra l’imperatore Alessandro e il re di Prussia. Se la Prussia entra nell’alleanza, si forzerà la mano all’Austria, ed avremo la guerra. Se no, allora si tratterà solo di accordarsi dove fissare i preliminari di un nuovo Campoformio.
— Ma che genio straordinario! e che inaudita fortuna! – esclamò il principe Andrea, dando del pugno sulla tavola.
— Chi? Buonaparte? – e Bilibin arricciò la fronte e calcò forte sull’ u . – Ora però, quando avrà dettato leggi all’Austria da Schönbrunn, io credo qu’il faut lui faire grace de l’u... Io anzi mi decido fin d’ora all’innovazione, e lo chiamo senz’altro Bonaparte.
— Ma via, senza scherzi, davvero voi credete finita la campagna?
— Ecco, vi dirò. L’Austria è rimasta con un palmo di naso, e poichè non vi è abituata, se la legherà al dito, e piglierà la sua rivincita. E perchè è rimasta con un palmo di naso? In primo luogo, perchè le province son rovinate (l’armata della santa Russia, dicono, ruba maledettamente), l’esercito è disfatto, la capitale è presa, e tutto ciò pour les beaux yeux di Sua Maestà il re di Sardegna... Epperò, mio caro, sia detto fra noi, io fiuto che noi altri ci si prende in giro, fiuto segreti rapporti con la Francia e progetti di pace, di una pace conchiusa separatamente.
— Impossibile! sarebbe troppa slealtà, troppa bassezza!
— Chi vivrà vedrà, – disse Bilibin, di nuovo spianando la fronte in segno di conchiusione del colloquio.
Entrato nella camera destinatagli e messosi a letto fra le nitide lenzuola e sui guanciali tepidi e fragranti, il principe Andrea sentì che la battaglia, di cui era stato messaggiero, perdevasi per lui quasi nella nebbia di un lontano passato. L’alleanza prussiana, il tradimento dell’Austria, il novello trionfo di Bonaparte, la rivista del giorno appresso, l’accoglienza che gli avrebbe fatto l’imperatore Francesco, gl’ingombravano la mente. Chiuse gli occhi, e nel punto stesso gli rintronarono all’orecchio il rombo dei cannoni, il crepitio dei fucili, lo strepito delle ruote, e di nuovo gli si presentò la scena dei moschettieri assalitori, dei Francesi fuggenti, e il cuore gli balzava dentro, mentre insieme con Schmidt cacciavasi nella mischia, e le palle gli fischiavano intorno, e tutto lui era invaso da una gioia di vivere, quale dall’infanzia non avea mai provato. Di botto, si destò.
— Sì, tutto questo è veramente accaduto! – disse con un sorriso di felicità infantile, e cadde nel sonno calmo e profondo della gioventù.
Il giorno appresso si svegliò tardi; e innanzi tutto gli sovvenne della imminente presentazione all’imperatore, non che del ministro, dell’ossequioso aiutante, di Bilibin, del discorso della sera precedente. Indossata la gran tenuta, fresco, rianimato, bello di aspetto, col braccio al collo per la lieve ferita alla mano, entrò nel gabinetto di Bilibin. Vi trovò quattro membri del corpo diplomatico. Conosceva già uno di essi, Ippolito Kuraghin, segretario d’ambasciata; agli altri lo presentò Bilibin.
Mondani, giovani, ricchi, spensierati, i quattro diplomatici appartenevano così a Vienna come qui ad un circolo speciale, che Bilibin, loro capo riconosciuto, chiamava les nôtres. Questo circolo aveva naturalmente i suoi interessi, affatto estranei alla guerra e alla politica, interessi del gran mondo, di relazioni femminili, di meschinerie d’ufficio. Il principe Andrea vi fu accolto come dei loro, onore a ben pochi concesso. Gli fecero, tanto per gentilezza formale e per entrare in discorso, alcune domande sull’armata e lo scontro, e subito la conversazione tornò a frazionarsi in motti, frasi scucite, maldicenze.
— Ma il bello sta in ciò, – disse uno, narrando l’insuccesso d’un collega, – che il cancelliere gli ha detto chiaro e tondo che la sua destinazione a Londra era una promozione e che per tale la tenesse. Voi vedete di qua com’ebbe a rimanere il pover’uomo.
— Pover’uomo davvero, perchè Kuraghin, io ve lo denuncio, o signori, ha profittato della sua disgrazia da quel vero don Giovanni che è.
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