Lev Tolstoj - Guerra e pace. Ediz. integrale

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Scritto tra il 1863 e il 1869 e pubblicato per la prima volta tra il 1865 e il 1869 sulla rivista Russkij Vestnik, riguarda principalmente la storia di due famiglie, i Bolkonskij e i Rostov, tra le guerre napoleoniche, la campagna napoleonica in Russia del 1812 e la fondazione delle prime società segrete russe. Per la precisione con cui i diversissimi piani del racconto si innestano all'interno del grande disegno monologico e filosofico dell'autore Lev Tolstoj, Guerra e pace potrebbe definirsi la più grande prova di epica moderna, e un vero e proprio «miracolo» espressivo e tecnico. Guerra e pace è considerato da molti critici un romanzo storico, in quanto offre un ampio affresco della nobiltà russa nel periodo napoleonico.

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Quando Andrea entrò nello studio, il vecchio principe, con gli occhiali sul naso e in veste bianca da camera – con la quale, eccetto il figlio, non riceveva alcuno, – era intento a scrivere. Alzò gli occhi e domandò:

— Parti?

E si rimise a scrivere.

— Son venuto a dirvi addio.

— Bacia qua, sulla guancia... E grazie, sai!

— Di che, babbo?

— Grazie, che parti al tempo fissato e non t’attacchi alle sottane d’una donna. Il servizio innanzi tutto. Grazie, grazie!

E tornò a scrivere con furia, facendo stridere e schizzar la penna.

— Se qualche cosa hai da dirmi, dimmela. Scrivo e t’ascolto...

— Di mia moglie volevo parlarvi... Mi rincresce davvero di lasciarvela così sulle braccia.

— Che diamine dici! Parla sul serio, via...

— Quando sarà uscita di conti, mandate a Mosca per un ostetrico... Sarebbe bene che l’assistesse...

Il vecchio principe, come se non avesse capito, fissò in viso al figlio uno sguardo severo.

— So bene, – riprese a dire il principe Andrea alquanto turbato, – che nulla giova, se la natura non aiuta; ammetto che sopra un milione di casi, non se ne danno che uno o due di disgraziati... Ma che volete! è una sua fantasia, e anche un po’ mia... S’è fatta dir la sorte, ha visto non so che cosa in sogno, ed ha paura.

— Hum! – brontolò il vecchio principe, seguitando a scrivere. – Sta bene, ci sarà l’ostetrico. – E qui, scarabocchiata la firma, si voltò di botto al figlio e si mise a ridere: – Brutta faccenda, eh?

— Che cosa, babbo?

— Tua moglie.

— Non capisco...

— Ma non c’è rimedio, caro mio: son tutte d’uno stampo, nè si può disammogliarsi... Ma non temere, non fiaterò... Del resto, lo sai tu meglio di qualunque altro...

Lo afferrò pel braccio con la sua piccola mano ossuta, lo scosse, lo guardò fiso negli occhi come se volesse frugarlo nel fondo dell’anima, e fece suonar di nuovo la sua risatina arida e fredda.

Il figlio trasse un sospiro, che era una mezza confessione. Il vecchio, seguitando con la solita rapidità a piegare e sigillar lettere, respinse ad un tratto carte, sigilli e ceralacca.

— Che farci?... È bellina, sì... Farò tutto... Sta tranquillo... Prendi intanto questa lettera... Quanto a lei, ti ripeto, sarà fatto il possibile... Dà retta a me adesso. Consegnerai questa lettera a Michele Kutusow... Gli scrivo, che ti adoperi nei posti migliori e non ti tenga a lungo per suo aiutante: brutto ufficio quello lì! Digli che di lui mi ricordo sempre con lo stesso affetto. E scrivimi poi come ti avrà accolto. Se di lui sarai contento, fa il tuo dovere. Il figlio di Nicola Bolconski non deve servire, sol perchè il suo superiore lo tollera... Ed ora, vien qua.

Parlava a sbalzi, smozzicava le parole, ma il figlio era abituato a capirlo. Si accostò ad un armadio, ne aprì la ribalta, trasse da un cassetto un quaderno coperto della sua scrittura grossa, fitta e allungata.

— S’intende ch’io debba morire prima di te. Queste qui son le mie Memorie. Le darai all’imperatore, dopo la mia morte. Ecco qua ancora una lettera e una ricevuta di deposito alla banca: è un premio per chi scriverà la storia delle guerre di Suvorow. Lo trasmetterai all’Accademia. Qui sono scritti certi miei appunti... Leggili, a suo tempo. Ti saranno utili.

Andrea non disse al padre, che certamente avrebbe ancora vissuto a lungo. Capì che l’osservazione sarebbe stata fuor di posto.

— Farò tutto, babbo, – disse.

— Orsù, addio! – Diè a baciar la mano al figlio e lo abbracciò. – Ricordati una cosa, principe Andrea... Se una palla ti coglie e ti porta via, il tuo vecchio padre ne sarà addolorato...

Tacque di botto, poi con voce stridente:

— Ma se vengo a sapere che tu non ti conducesti come figlio di Nicola Bolconski,... ne avrò vergogna.

— Cotesto, babbo, potevate risparmiarvelo, – disse sorridendo il figlio. – Un’altra preghiera però avevo da farvi... Nel caso ch’io muoia sul campo, e se avrò avuto un figlio, non lo mandate via... anche ieri, babbo, ve ne parlai... fate che cresca e che sia allevato qui, in casa vostra...

— A tua moglie no? – disse il vecchio, tornando a ridere.

Stettero muti un momento, l’uno di fronte all’altro. Gli occhi vivaci del vecchio erano inchiodati in quelli del figlio. Il mento gli tremava.

— Addio... Va!... Va! – gridò con voce di stizza, spalancando la porta dello studio.

— Che fu? che è successo? – domandarono insieme Lisa e Maria, vedendo uscire il principe Andrea e travedendo appena la figura del vecchio irritato in veste bianca da camera, con gli occhiali e senza parrucca.

Il principe Andrea trasse un sospiro e non rispose.

— Orsù, – si volse poi alla moglie con fredda ironia, come se le dicesse: – adesso potete dar via alle vostre scempiaggini.

— Come! di già? – esclamò la piccola principessa, facendosi pallida, e guardandolo tutta spaurita. Poi, mentre egli l’abbracciava, gettò un grido e gli si abbandonò, senza sentimenti, sulla spalla.

Il marito si divincolò con garbo e l’adagiò in una poltrona.

— Addio, Maria! – bisbigliò alla sorella, e scambiato con lei un bacio, uscì con passo frettoloso.

La principessa giaceva sempre in poltrona, e madamigella Bourienne le fregava le tempie. La principessina Maria, sorreggendo la cognata, volgeva alla porta i begli occhi umidi di lagrime e mandava un’ultima benedizione al fratello. Dallo studio del vecchio si udivano furiosi e ripetuti soffiamenti di naso, che parevano pistolettate. Non appena partito il principe Andrea, si spalancò di colpo la porta dello studio e ne emerse la bianca figura del vecchio.

— È partito?... Benissimo! – disse, e dato uno sguardo irritato alla nuora in deliquio, crollò il capo e rientrò sbatacchiando la porta.

PARTE SECONDA

I

Nell’Ottobre del 1805, l’esercito russo occupava i villaggi e le città dell’arciducato d’Austria. Arrivavano dalla Russia sempre novelli reggimenti, che erano di non lieve peso agli abitanti, e si accampavano presso la fortezza di Braunau. Qui era stabilito il quartier generale del comandante supremo Kutusow.

L’11 Ottobre, uno dei reggimenti di fanteria di fresco arrivati aspettava a mezzo miglio dalla città che il comandante in capo lo passasse a rassegna. A malgrado del paese forestiero (orti, parapetti, tegole, montagne in lontananza, gente estranea che guardava curiosa ai soldati), il reggimento avea tutto l’aspetto di un qualunque reggimento russo, pronto ad esser passato in rivista nel cuore della patria.

L’ordine del giorno, ricevuto la vigilia durante l’ultima tappa, non era sembrato abbastanza esplicito al generale di brigata; epperò la questione era sorta se alla rivista si dovesse trovarsi o no in tenuta di marcia. Nel consiglio dei comandanti di battaglione fu deciso che si indossasse la tenuta di parata, argomentandosi che, in punto di ossequio, meglio è abbondare che lesinare. Dopo una marcia di trenta verste, i soldati non che chiudere occhio, passarono la notte a pulirsi e lustrarsi; gli aiutanti e i capi compagnia contavano e ricontavano i loro uomini; e al mattino il reggimento, invece di una turba lunga e scompaginata com’era stato il giorno innanzi, presentava una massa ordinata di duemila fantaccini, ciascuno dei quali sapeva il suo posto e il suo ufficio, ed era in perfetta tenuta con tutti i bottoni e le corregge luccicanti al sole. E non solo la tenuta esterna era irreprensibile, ma se al generalissimo fosse venuta voglia di guardar di sotto alle giubbe, avrebbe visto su ciascun uomo una camicia di bucato, e in ogni zaino avrebbe trovato il prescritto numero di oggetti, dal refe al sapone, come dicevano i soldati. Solo una cosa lasciava a desiderare, la calzatura. Ma il difetto non era imputabile al generale, visto che, a dispetto delle reiterate rimostranze, non gli erano state spedite le scarpe dall’intendenza militare austriaca, e il reggimento avea percorso non meno di mille verste.

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