— O come mai lo dicevano guercio il generalissimo?
— Altro che guercio!
— Con un occhio solo, ci vede meglio di te che n’hai due. Scarpe, zaini, mantelline, niente gli è sfuggito.
— Quando l’ho visto che si fermava a guardarmi i piedi, non ti so dire che tremarella...
— E quell’altro generale intonacato... È austriaco... Una vera mosca bianca... Figurarsi che fatica a dover lustrare il cuoiame!
— E quand’è che si menano le mani?... Tu che stavi più vicino avrai inteso qualche parola... Dicevano sempre che Bonaparte era qui, a Braunau...
— O che sei matto? E chi non lo sa adesso che il Prussiano ha alzato la cresta? L’Austriaco, naturalmente, ha da metterlo a dovere, e poi si comincerà il balletto con Bonaparte... Ah, ah! Bonaparte a Braunau!... Si vede che sei un bietolone. Un’altra volta, sturati meglio le orecchie.
— Maledetti forieri! Guarda un po’, la quinta compagnia ha già passato il villaggio e prepara il rancio, e noi siamo ancora qui.
— Dammi un biscotto, frattanto.
— A te?... E tu, mi desti ieri il tabacco?... Ebbene non importa, eccoti il biscotto e buon pro ti faccia.
— Facessimo alto almeno! Ancora cinque buone verste a pancia vuota.
— Che bella cosa se i Tedeschi ci dessero le loro carrozze!... Si marcerebbe da gran signori, eh?
— Qui, camerata, è tutt’altra gente che da noi. Coi Polacchi, su per giù, ci s’intendeva... si era sempre in Russia... Ma qui siamo in tedescheria, e non c’è che Tedeschi.
— Avanti i cantori! – si udì il comando del capitano.
Venti uomini emersero dalle file. Il tamburino-corifeo si voltò di faccia ai cantori e, fatto con la mano un cenno, intonò la canzone soldatesca che comincia: Non splende il sol? non batte la diana?, e finisce: Su! col babbo Kamenski alla vittoria! La canzone, composta in Turchia, cantavasi ora in Austria, mutando solo il nome del condottiero: invece di Kamenski si diceva Kutusow.
Pronunciate con accento spavaldo le parole di chiusa e fatto con le mani un gesto come se scaraventasse qualche cosa per terra, il tamburino, un soldato asciutto e di bella persona sui quarant’anni, abbracciò con una sola occhiata i cantori e aggrottò la fronte. Poi, quando si fu accertato che tutti gli occhi erano fisi in lui, alzò pianamente ambo le mani fin sulla testa quasi sollevasse un oggetto invisibile e prezioso, le tenne così qualche secondo, e di colpo abbassandole, intonò:
Casa mia! casa mia!
Casa mia, casa mia! fecero eco venti voci, e in quel punto stesso, balzò fuori dalle file il vivandiere, e venuto sul fronte, volgendo le spalle alla compagnia, prese a ballonzolare con uno scotimento cadenzato del busto e ad agitare in alto due mestoli come se minacciasse qualcuno. Procedevano i soldati, dondolando le braccia a tempo di musica, involontariamente marcando il passo. Dietro la compagnia si udì rumor di ruote e scalpitio di cavalli. Era Kutusow col suo stato maggiore che tornava in città. Il generalissimo fè cenno che i soldati seguitassero pure la marcia, e il viso di lui come quelli del seguito espressero la soddisfazione a quei canti, alla vista del soldato che ballonzolava, all’andatura franca ed allegra di tutta la compagnia. Nella seconda fila di destra, che la carrozza rasentava, emergeva la figura di un giovane soldato biondo dagli occhi cilestri. Era Dolochow, che incedeva con passo ardito a tempo di musica e guardava agli ufficiali che passavano, come se li compiangesse di non far parte della compagnia in marcia. L’ufficiale degli ussari, che avea contraffatto il generale di brigata, si allontanò dalla carrozza e gli venne vicino.
Quest’ufficiale, per nome Gercow, aveva un tempo fatto parte di quella brigata di rompicolli, di cui Dolochow era il capoccia a Pietroburgo. Imbattutosi nell’antico compagno fuori di Russia, Gercow avea fatto le viste di non riconoscerlo. Ora, dopo le parole dirette dal generalissimo all’ufficiale degradato, gli si volse con cordialità di vecchio amico.
— Come si va, camerata? – domandò, contenendo il passo del cavallo.
— Come si va? – rispose freddo Dolochow. – Come vedi.
L’allegro motivo dei canti conferiva uno speciale significato al tono disinvolto dell’ussaro e alla deliberata freddezza di Dolochow.
— Sicchè, come vai d’accordo coi superiori?
— Brava gente, non c’è che dire. E tu com’hai fatto a cacciarti nello stato maggiore?
— Comandato... Son di servizio.
Tacquero un momento.
Dal pugno destro diritto al cielo
Il bravo falco spiccato ha il vol...
diceva la canzone, inspirando un senso di franca allegria. Il loro dialogo sarebbe forse stato diverso, se non avessero discorso al suono di quelle cantilene.
— Ed è poi vero che gli Austriaci ne han toccate? – chiese Dolochow.
— Chi lo sa!... Dicono.
— Ci ho gusto, parola d’onore.
— Dà retta... Vieni da noi una di queste sere. Taglierai un faraone.
— Ne avete molti dei danari?
— Vieni...
— Non è possibile, ho fatto un voto. Nè carte nè vino, fino alla promozione.
— Ebbene, al primo scontro...
— Allora si vedrà...
— E se di qualche cosa hai bisogno, passa da noi, beninteso. Allo stato maggiore, tutti a tua disposizione.
Dolochow sorrise.
— Non disturbarti. Se di qualche cosa ho bisogno, non la domando; me la piglio.
— Dicevo così, sai...
— Ed io pure così.
— Addio.
— Buona salute...
Là dietro i monti, lontan lontano,
Il mio paese nascosto sta...
Gercow spronò il cavallo, e la bestia, scalpitato un po’ sul posto, si slanciò al galoppo e in breve tempo ebbe raggiunto la carrozza.
Tornato dalla rivista, Kutusow, insieme col generale austriaco, entrò nel suo gabinetto, chiamo l’aiutante e ordinò gli si portassero alcune carte relative allo stato delle truppe arrivate, non che le lettere dell’arciduca Ferdinando, comandante dell’avanguardia. Il principe Andrea Bolconski recò le carte richieste. Davanti a una tavola, sulla quale era spiegata una mappa, sedevano Kutusow e l’inviato del Consiglio aulico di guerra.
— Ah! – fece Kutusow, volgendosi al principe Andrea, come se lo invitasse ad aspettare, e seguitò in francese il colloquio incominciato.
— Solo questo io dico, generale (Kutusow si esprimeva con eleganza, in tono affabile e misurato, e compiacevasi evidentemente di ascoltarsi), solo questo io dico, che se la cosa dipendesse dal mio personale desiderio, il comando di Sua Maestà l’imperatore Francesco sarebbe da un pezzo eseguito. A quest’ora, avrei già operato la mia congiunzione con l’arciduca. E credete pure, generale, che per me personalmente sarebbe un vero piacere cedere il comando supremo dell’esercito ad un generale più capace e sperimentato, dei quali abbonda il vostro paese, sgravandomi io stesso di una così pesante responsabilità. Ma le circostanze, generale, son più forti di noi.
E Kutusow parve dire col suo sorriso: – Padronissimo voi di non credermi, e a me non preme niente affatto che mi crediate; ma voi non avete motivo di dirmelo in viso. E questo è l’essenziale.
Il generale austriaco, benchè facesse una cera acre anzi che no, fu obbligato a rispondere nello stesso tono deferente ed affabile.
— Al contrario, – disse con voce burbera che faceva uno strano contrasto con le parole riguardose, – al contrario... La cooperazione di Vostra Eccellenza è altamente apprezzata da Sua Maestà... Ma noi opiniamo che l’indugio del momento viene a defraudare il glorioso esercito russo e i suoi comandanti di quegli allori, che essi son usi a mietere sui campi di battaglia.
La frase di chiusura era evidentemente preparata.
Kutusow, sempre sorridendo, s’inchinò.
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