Jules Verne - L’Isola Misteriosa

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L’Isola Misteriosa: краткое содержание, описание и аннотация

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Questo straordinario romanzo presenta non poche analogie con Robinson Crusoe, dello scrittore inglese Defoe, di cui Verne era un grande ammiratore. Anche qui, la situazione è press’a poco la stessa: alcuni naufraghi approdano fortunosamente su un’isola deserta e lottano disperatamente per sopravvivere. Ma se Robinson, di fronte alla natura selvaggia, incarnava l’uomo del ‘700, che si industria come può, ricorrendo ai piccoli espedienti suggeritigli dalla ragione, senza altri strumenti che le proprie mani, i cinque naufraghi protagonisti di questo libro incarnano la nuova idea dell’uomo «scientifico» qual era concepito nella seconda metà dell’800, l’uomo che domina ormai la natura in virtù di una tecnologia progredita che gli permette di trasformare rapidamente un’isola selvaggia in una colonia civile. Non a caso Robinson è un uomo comune, un marinaio, ed è solo, a lottare contro le forze cieche della natura, mentre qui siamo dì fronte a una vera e propria équipe, composta da persone di estrazione e di competenze diverse, ma guidata da un ingegnere e scienziato, Cyrus Smith…

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«Ecco le foche richieste, signor Cyrus!» disse il marinaio, avanzandosi verso l’ingegnere.

«Bene!» rispose Cyrus Smith. «Ne faremo dei mantici da fucina!»

«Mantici da fucina?» esclamò Pencroff. «Ebbene, ecco delle foche fortunate!»

Infatti, l’ingegnere si proponeva di fabbricare, con la pelle di quegli anfibi, una macchina soffiante, necessaria per il trattamento del minerale. Gli animali erano di corporatura media, giacché la loro lunghezza non oltrepassava i sei piedi, e, per la forma della testa, rassomigliavano a cani.

Siccome era inutile caricarsi del non indifferente peso delle due bestie, Nab e Pencroff risolsero di scuoiarle sul posto, mentre Cyrus Smith e il giornalista avrebbero finito di esplorare l’isolotto.

Il marinaio e il negro se la cavarono abilmente con il loro lavoro, e tre ore dopo Cyrus Smith aveva a sua disposizione due pelli di foca, che contava di utilizzare così come si trovavano senza sottoporle ad alcuna concia.

I coloni dovettero aspettare che il mare decrescesse, dopo di che, attraversando il canale, ritornarono ai Camini.

Non fu lavoro da poco stendere quelle pelli su telai di legno, destinati a mantenerle ben tese, e cucirle per mezzo di fibre, in modo da potervi immagazzinare l’aria senza lasciare troppe fughe. Bisognò ricominciare da capo parecchie volte. Cyrus Smith non aveva a sua disposizione che le due lame d’acciaio fabbricate con il collare di Top: ciò nonostante, egli fu si accorto e i suoi compagni lo aiutarono con tanta diligenza, che tre giorni dopo gli attrezzi della piccola colonia s’erano accresciuti di un mantice, destinato a soffiare l’aria nel minerale grezzo, quand’esso sarebbe stato trattato con il calore, condizione questa indispensabile per la riuscita dell’operazione.

La mattina del 20 aprile, ebbe inizio «il periodo metallurgico», così come lo chiamò il giornalista nei suoi appunti. Com’è noto, l’ingegnere era deciso a operare sul luogo stesso dove si trovavano i giacimenti di carbon fossile e di minerale grezzo. Ora, stando alle sue osservazioni, quei giacimenti erano situati ai piedi dei contrafforti nordest del monte Franklin, cioè a una distanza di sei miglia. Non si poteva, dunque, pensare di ritornare ogni giorno ai Camini, e fu convenuto che la piccola colonia si sarebbe accampata sotto una capanna di rami, in modo che l’importante operazione potesse essere sorvegliata giorno e notte.

Stabilito questo progetto, i coloni partirono sin dal mattino. Nab e Pencroff trascinavano su di un graticcio il mantice, e una certa quantità di provviste vegetali e animali, che sarebbero poi anche state rinnovate per via.

La strada seguita fu quella dei boschi dello Jacamar, che vennero attraversati obliquamente da sudest a nordovest nella parte più folta. Fu necessario tracciare un sentiero, che avrebbe poi costituito la via di comunicazione più diretta fra l’altipiano di Bellavista e il monte Franklin. Gli alberi, appartenenti alle specie già nominate, erano magnifici. Harbert ne segnalò, fra gli altri, dei nuovi: erano dracene, che Pencroff trattò da «porri presuntuosi», giacché, malgrado la loro altezza, erano della medesima famiglia delle liliacee, come la cipolla, le cipolline, lo scalogno e gli asparagi. Queste piante potevano fornire delle radici legnose, le quali, cotte, sono eccellenti e che, sottoposte a una certa fermentazione, danno un gradevolissimo liquore. Ne fu fatta provvista.

La traversata del bosco durò a lungo. Richiese tutta la giornata, ma permise d’osservare la fauna e la flora. Top, più particolarmente incaricato della fauna, correva attraverso le erbe e le sterpaglie, mettendo in fuga indistintamente ogni sorta di selvaggina. Harbert e Gedeon Spilett uccisero a frecciate due canguri, e inoltre un animale che somigliava molto a un riccio e a un formichiere: al primo, perché si arrotolava come una palla ed era irto di aculei; al secondo, perché aveva unghie particolarmente adatte a scavare, muso lungo e sottile terminante a becco d’uccello e una lingua estensibile, munita di piccole spine che gli servivano a trattenere gli insetti.

«E quando sarà in pentola,» fece naturalmente osservare Pencroff, «a che cosa assomiglierà?»

«A un eccellente pezzo di manzo» rispose Harbert.

«Non gli chiediamo di più» replicò il marinaio.

Durante quell’escursione scorsero alcuni cinghiali selvatici, che non cercarono affatto di attaccare la piccola comitiva e non pareva, quindi, che si dovessero incontrare belve pericolose, quando, in una folta macchia, Spilett credette di vedere, a pochi passi da lui, fra i primi rami di un albero, un animale ch’egli prese per un orso, e si mise tranquillamente a disegnarlo. Fortunatamente per Gedeon Spilett, la bestia non apparteneva alla temibile famiglia dei plantigradi. Non era che un kula, più noto sotto il nome di «poltrone», che aveva la corporatura di un grosso cane, il pelo irto e di colore sporco, le zampe armate di robusti artigli, che gli permettevano di arrampicarsi sugli alberi e di nutrirsi di foglie. Verificata l’identità dell’animale, che non fu disturbato nelle sue occupazioni, Gedeon Spilett cancellò la parola «orso» scritta sotto lo schizzo, mise «kula» al posto di quella, e ripresero il cammino.

Alle cinque di sera, Cyrus Smith dava il segnale di alt. Erano giunti fuori della foresta, laddove nascevano i possenti contrafforti che puntellavano verso est il monte Franklin. Ad alcune centinaia di passi scorreva il Creek Rosso, e quindi l’acqua potabile non era lontana.

Venne subito organizzato l’accampamento. In meno di un’ora, al margine della foresta, fra gli alberi, una capanna di rami misti a liane e impastati con argilla offrì un rifugio sufficiente. Le ricerche geologiche furono rimandate all’indomani. La cena fu preparata, un buon fuoco fiammeggiò davanti alla capanna, lo spiedo girò, e alle otto, mentre uno dei coloni vegliava per mantenere acceso il fuoco in caso che qualche bestia pericolosa si fosse aggirata nei dintorni, tutti gli altri dormivano di un sonno profondo.

L’indomani, 21 aprile, Cyrus Smith, accompagnato da Harbert, si pose alla ricerca dei terreni di antica formazione, sui quali già aveva trovato un campione di minerale grezzo. Egli ritrovò il giacimento a fior di terra, quasi alla sorgente del corso d’acqua, ai piedi della base laterale di uno dei contrafforti di nordest. Quel minerale, ricchissimo di ferro, chiuso nella sua ganga fusibile, si adattava perfettamente al metodo di riduzione che l’ingegnere voleva adottare, vale a dire il metodo catalano, ma semplificato, così come si usa in Corsica.

Infatti, il metodo catalano propriamente detto esige la costruzione di forni e di crogiuoli, nei quali il minerale grezzo e il carbone, disposti a strati alternati, si trasformano e si riducono. Ma Cyrus Smith voleva risparmiare quelle costruzioni, e voleva, come se si trattasse della cosa più semplice, formare con il minerale grezzo e il carbone una massa cubica, al centro della quale avrebbe diretto il soffio del mantice. Questo era, indubbiamente, il procedimento usato da Tubalcain e dai primi metallurghi del mondo abitato. Ora, quello ch’era riuscito ai nipoti d’Adamo e che dava ancora buoni risultati nelle contrade ricche di minerale greggio e di combustibile, non poteva non riuscire nelle circostanze in cui si trovavano i coloni dell’isola di Lincoln.

Così, come il minerale grezzo, anche il carbon fossile fu raccolto, senza fatica e non lontano, alla superficie del suolo. Prima si ruppe il minerale in piccoli pezzi e lo si sbarazzò, con le mani, dalle impurità che ne imbrattavano la superficie. Poi, carbone e minerale furono ammassati a strati alterni, così come fa il carbonaio con la legna che vuol carbonizzare. In questa maniera, sotto l’influenza dell’aria proiettata dal mantice, il carbone doveva trasformarsi in acido carbonico, poi in ossido di carbonio, destinato questo a ridurre l’ossido di ferro, cioè a liberarlo dall’ossigeno.

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