«Un po’, signor Cyrus» rispose Harbert, che non voleva spingersi troppo oltre.
«Ricordi bene quali sono le proprietà di due triangoli simili?»
«Sì» rispose Harbert. «I loro lati omologhi sono proporzionali.»
«Ebbene, ragazzo mio, or ora, io ho costruito due triangoli simili, tutti e due rettangoli: il primo, il più piccolo, ha per lati la pertica perpendicolare e la distanza che separa il paletto dalla parte inferiore della pertica, e per ipotenusa il mio raggio visivo; il secondo ha per lati la muraglia perpendicolare, di cui dobbiamo misurare l’altezza, la distanza che separa il paletto dalla base di detta muraglia e il mio raggio visivo formante l’ipotenusa anche di questo secondo triangolo, la quale viene a essere così il prolungamento di quella del primo.»
«Ah! Signor Cyrus, ho capito!» esclamò Harbert. «Come la distanza dal paletto alla pertica è proporzionale alla distanza dal paletto alla base della muraglia, così l’altezza della pertica è proporzionale all’altezza di questa muraglia.»
«Proprio così, Harbert,» rispose l’ingegnere «e quando avremo misurato le due prime distanze, conoscendo l’altezza della pertica, non ci resterà da fare che un calcolo di proporzione, per aver l’altezza della muraglia, evitandoci la fatica di misurarla direttamente.»
Furono prese le due distanze orizzontali, per mezzo della pertica stessa, la cui lunghezza emergente dalla sabbia era esattamente di dieci piedi.
La prima distanza era di quindici piedi, tra il paletto e il punto ove la pertica era affondata nella sabbia.
La seconda distanza, fra il paletto e la base della muraglia, era di cinquecento piedi.
Prese queste misure, Cyrus Smith e il ragazzo tornarono ai Camini.
Qui giunto, l’ingegnere prese una pietra piatta, che aveva raccolta durante una delle precedenti escursioni; specie di schisto d’ardesia, sul quale era facile tracciare delle cifre servendosi di una conchiglia aguzza. Egli stabilì, dunque, la proporzione seguente:
15 sta a 500 come 10 sta ad X
Di conseguenza il risultato (cioè X) è 500 per 10, cioè 5000 diviso 15.
Il risultato finale è 333,3
Da cui risultò che la muraglia di granito misurava trecentotrentatré piedi di altezza. (Nota: Si tratta del piede inglese, che corrisponde a 30 centimetri. Fine nota)
Cyrus Smith riprese allora lo strumento che aveva fabbricato il giorno prima, i due bracci del quale, per mezzo della loro divaricazione, gli davano la distanza angolare dalla stella alfa all’orizzonte. Egli misurò con grande esattezza l’apertura di detto angolo su di una circonferenza, che divise in trecentosessanta parti uguali. L’angolo così ottenuto era di dieci gradi. Quindi, la distanza angolare totale fra il polo e l’orizzonte, aggiungendo a essa i ventisette gradi che separano l’alfa del polo antartico e riportando al livello del mare l’altitudine dell’altipiano sul quale era stata fatta l’osservazione, fu trovata essere di trentasette gradi. Cyrus Smith trasse da ciò la conclusione che l’isola di Lincoln era situata al trentasettesimo grado di latitudine australe; oppure, prevedendo un errore di cinque gradi, data l’imperfezione delle sue operazioni, che essa doveva trovarsi fra il trentacinquesimo e il quarantesimo parallelo.
Per completare le coordinate dell’isola, rimaneva da conoscere la longitudine e questa l’ingegnere avrebbe tentato di determinarla in quello stesso giorno, a mezzodì, cioè al momento in cui il sole sarebbe passato al meridiano.
Fu deciso che quella domenica sarebbe stata impiegata in una passeggiata, o piuttosto in un’esplorazione della parte dell’isola posta fra il nord del lago e il golfo del Pescecane e che, se il tempo lo avesse permesso, tale ricognizione sarebbe stata spinta fino al versante settentrionale del capo MandibolaSud. Si sarebbe fatto colazione fra le dune e non si sarebbe ritornati che la sera.
Alle otto e mezzo del mattino, la piccola schiera procedeva lungo l’orlo del canale. Dall’altra parte, sull’isolotto della Salvezza, numerosi uccelli passeggiavano gravemente. Erano marangoni, della specie degli apterigidi, facilmente riconoscibili dal loro strido sgradevole, che ricorda il raglio dell’asino. Essi richiamarono l’attenzione di Pencroff, solo dal punto di vista commestibile; egli apprese perciò, non senza una certa soddisfazione, che la loro carne, benché nerastra, era molto buona da mangiare.
Si vedevano pure strisciare sulla sabbia grossi anfibi, foche indubbiamente, che sembravano aver scelto per rifugio l’isolotto. Era però impossibile considerare questi animali dal punto di vista alimentare, giacché la loro carne oleosa è detestabile; nondimeno, Cyrus Smith li osservò attentamente, e, senza manifestare la propria idea, annunciò ai compagni che molto presto avrebbero fatto una visita all’isolotto.
La riva percorsa dai coloni era cosparsa di innumerevoli conchiglie, alcune delle quali avrebbero fatto la gioia di un appassionato di malacologia. C’erano, fra le altre, fasianelle, terebratule, trigonie, ecc. Ma una scoperta assai più utile fu fatta da Nab fra le rocce, a circa quattro miglia dai Camini: un vasto banco di ostriche allora emergente per la bassa marea.
«Nab non ha perduto la sua giornata» esclamò Pencroff, osservando il banco d’ostriche che si stendeva al largo.
«È una fortunata scoperta, infatti,» disse il giornalista «e se, come si afferma, l’ostrica produce dalle cinquanta alle sessantamila uova all’anno, ne avremo una riserva inesauribile.»
«Soltanto, credo che l’ostrica non sia molto nutriente» disse Harbert.
«No» rispose Cyrus Smith. «L’ostrica contiene solo pochissima materia azotata, e a un uomo, che si nutrisse esclusivamente di ostriche, non ne occorrerebbero meno di quindici o sedici dozzine al giorno.»
«Bene!» rispose Pencroff. «Noi potremo inghiottirne delle dozzine di dozzine, prima d’aver esaurito quel banco. Se ne prendessimo alcune per la nostra colazione?»
E senza aspettar risposta, ben sapendo in anticipo che la sua idea era approvata, il marinaio, aiutato da Nab, distaccò una certa quantità di quei molluschi. Furono messi in una specie di rete, che Nab aveva confezionata con fibre di ibisco, e che conteneva già le altre vivande per il desinare; poi si proseguì lungo la costa tra le dune e il mare.
Di tanto in tanto, Cyrus Smith consultava l’orologio, allo scopo di prepararsi in tempo per l’osservazione solare, che doveva essere fatta a mezzogiorno in punto.
Tutta la parte dell’isola che i coloni percorrevano quella mattina era aridissima, fino alla punta che chiudeva la baia dell’Unione, e che aveva ricevuto il nome di capo MandibolaSud. Non vi si vedeva che sabbia e conchiglie, mescolate a residui di lava. Alcuni uccelli marini frequentavano quella costa desolata: gabbiani, grandi albatri, e anche anatre selvatiche, che eccitarono giustamente la cupidigia di Pencroff. Egli tentò, si, di abbatterle a frecciate, ma inutilmente, giacché esse non si posavano, e si sarebbe dovuto colpirle al volo.
Il nuovo insuccesso spinse il marinaio a ripetere all’ingegnere:
«Vedete, signor Cyrus, finché non avremo uno o due fucili da caccia, la nostra attrezzatura lascerà sempre a desiderare!»
«Indubbiamente, Pencroff,» rispose il giornalista «ma non dipende che da voi! Procurateci ferro per le canne, acciaio per i percussori, salnitro, carbone e zolfo per la polvere, mercurio e acido azotico per il fulminato, e infine piombo per i proiettili, e Cyrus ci farà dei fucili di prim’ordine.»
«Oh!» rispose l’ingegnere «potremo senza dubbio trovare nell’isola tutte queste sostanze, ma un’arma da fuoco è uno strumento delicato, che necessita di utensili di grande precisione. Insomma, vedremo più tardi.»
«Ah! Perché mai,» esclamò Pencroff «perché mai abbiamo gettato via tutte le armi che avevamo con noi nella navicella, e anche gli utensili e perfino i nostri coltelli da tasca!»
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