Jules Verne - L’Isola Misteriosa

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L’Isola Misteriosa: краткое содержание, описание и аннотация

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Questo straordinario romanzo presenta non poche analogie con Robinson Crusoe, dello scrittore inglese Defoe, di cui Verne era un grande ammiratore. Anche qui, la situazione è press’a poco la stessa: alcuni naufraghi approdano fortunosamente su un’isola deserta e lottano disperatamente per sopravvivere. Ma se Robinson, di fronte alla natura selvaggia, incarnava l’uomo del ‘700, che si industria come può, ricorrendo ai piccoli espedienti suggeritigli dalla ragione, senza altri strumenti che le proprie mani, i cinque naufraghi protagonisti di questo libro incarnano la nuova idea dell’uomo «scientifico» qual era concepito nella seconda metà dell’800, l’uomo che domina ormai la natura in virtù di una tecnologia progredita che gli permette di trasformare rapidamente un’isola selvaggia in una colonia civile. Non a caso Robinson è un uomo comune, un marinaio, ed è solo, a lottare contro le forze cieche della natura, mentre qui siamo dì fronte a una vera e propria équipe, composta da persone di estrazione e di competenze diverse, ma guidata da un ingegnere e scienziato, Cyrus Smith…

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Ma questo errore non poteva influire sul partito da prendere. Era evidente che l’isola di Lincoln si trovava a tale distanza da ogni terra o arcipelago, che sarebbe stato impossibile arrischiarsi a superare quella distanza su di una semplice e fragile barca.

Infatti, essa si trovava ad almeno milleduecento miglia da Tahiti e dalle isole dell’arcipelago delle Paumotu, a più di milleottocento miglia dalla NuovaZelanda, a più di quattromilacinquecento miglia dalla costa americana!

E per quanto Cyrus Smith frugasse nella sua memoria, non riusciva in nessun modo a ricordare che una qualsiasi isola occupasse, in quella parte del Pacifico, la posizione assegnata all’isola di Lincoln.

CAPITOLO XV

LO SVERNAMENTO DEFINITIVAMENTE DECISO «LA QUESTIONE METALLURGICA» ESPLORAZIONE DELL’ISOLOTTO DELLA SALVEZZA «LA CACCIA ALLE FOCHE» CATTURA DI UN ECHIDNA «IL KULA» CIÒ CHE SI CHIAMA METODO CATALANO «FABBRICAZIONE DEL FERRO» COME SI OTTIENE L’ACCIAIO

L’INDOMANI, 17 aprile, la prima domanda del marinaio fu per Spilett.

«Ebbene, signore,» gli domandò «che cosa diventeremo oggi?»

«Quello che piacerà a Cyrus» rispose il giornalista.

I compagni dell’ingegnere, da fornaciai e vasai ch’erano stati fino allora, stavano per diventare operai metallurgici.

Il giorno precedente, dopo colazione, l’esplorazione era stata spinta fino alla punta del capo Mandibola, distante quasi sette miglia dai Camini. Colà finiva la lunga serie delle dune, e il suolo prendeva un aspetto vulcanico. Non erano più alte muraglie granitiche, come quelle dell’altipiano Bellavista, ma una bizzarra e capricciosa cornice, formata dalle materie minerali eruttate dal vulcano, che cingeva lo stretto golfo compreso tra i due capi. I coloni, arrivati a quella punta, erano poi ritornati sui loro passi, e al cader della notte rientrarono ai Camini, ma non si addormentarono prima che fosse stata definitivamente risolta la questione di sapere se bisognava pensare a lasciare o no l’isola di Lincoln.

Le milleduecento miglia che separavano l’isola dall’arcipelago delle Paumotu costituivano una distanza notevole. Una barca non sarebbe bastata a superarla, soprattutto all’avvicinarsi della cattiva stagione. Pencroff l’aveva formalmente dichiarato. Ora, costruire una semplice imbarcazione era un lavoro difficile, anche possedendo gli utensili necessari. Essendo i coloni sprovvisti di utensili, bisognava cominciare con il fabbricare martelli, scuri, accette, seghe, succhielli, pialle, ecc., il che avrebbe richiesto un certo tempo. Fu dunque deciso che si sarebbe passato l’inverno sull’isola di Lincoln, cercando però una dimora più comoda dei Camini.

Prima d’ogni altra cosa, si trattava di utilizzare il minerale di ferro, di cui l’ingegnere aveva osservato qualche giacimento nella parte nordovest dell’isola, e di trasformare quel minerale sia in ferro, che in acciaio.

Generalmente, il suolo non contiene i metalli allo stato puro. Per la maggior parte, essi si trovano combinati con l’ossigeno o con lo zolfo. I due campioni portati da Cyrus Smith erano appunto, uno di ferro magnetico non carbonato, l’altro di pirite, chiamata anche solfuro di ferro. Bisognava dunque ridurre il primo, cioè l’ossido di ferro, per mezzo del carbone, vale a dire liberarlo dell’ossigeno, per ottenerlo allo stato puro. Questa depurazione si fa sottoponendo il minerale a contatto del carbone a un’alta temperatura, sia con il rapido e facile «metodo catalano», che ha il vantaggio di trasformare direttamente il minerale in ferro con una sola operazione, sia con il metodo degli alti forni, che trasforma dapprima il minerale in ghisa, e poi la ghisa in ferro, togliendo il tre o quattro per cento di carbone che permane nella ghisa.

Ora, di che cosa aveva bisogno Cyrus Smith? Di ferro e non di ghisa: ed egli doveva cercare il più rapido metodo di riduzione. D’altronde, il minerale raccolto era di per se stesso molto puro e molto ricco. Ora quel minerale ossidato che si trova in masse confuse di un grigio scuro, dà una polvere nera, si cristallizza in ottaedri regolari, fornisce le calamite naturali e in Europa serve a fabbricare quei ferri di prima qualità, di cui la Svezia e la Norvegia sono così abbondantemente provviste. Non lontano dal giacimento del minerale accennato, si trovavano i giacimenti di carbon fossile, che i coloni avevano già messi a profitto. Ne conseguiva una grande facilità per la lavorazione del minerale, poiché gli elementi della fabbricazione si trovavano vicini. Questo è anzi un fattore della prodigiosa ricchezza degli sfruttamenti minerari del Regno Unito, dove il carbon fossile serve a fabbricare il metallo estratto contemporaneamente dallo stesso suolo.

«Allora, signor Cyrus,» disse Pencroff «ci prepariamo a lavorare il minerale di ferro?»

«Sì, amico mio» rispose l’ingegnere «e a tale scopo, che credo non vi dispiacerà, cominceremo con il dare la caccia alle foche sull’isolotto.»

«La caccia alle foche!» esclamò il marinaio, volgendosi verso Gedeon Spilett. «Occorre, dunque, la foca per fabbricare il ferro?»

«Se lo dice Cyrus!» rispose il cronista.

Ma l’ingegnere aveva già abbandonato i Camini, e Pencroff si preparò alla caccia delle foche, senza aver ottenuto altre spiegazioni.

Poco dopo Cyrus Smith, Harbert, Gedeon Spilett, Nab e il marinaio erano riuniti sul greto, in un punto ove il canale lasciava una specie di passaggio guadabile a bassa marea. La marea era al minimo del riflusso e i cacciatori poterono attraversare il canale senza bagnarsi oltre il ginocchio. Cyrus Smith metteva per la prima volta il piede sull’isolotto: per i suoi compagni invece era la seconda volta, poiché il pallone li aveva a tutta prima gettati là.

Quando misero piede a terra, alcune centinaia di pinguini li guardarono con occhio imbambolato. I coloni, armati di bastoni, avrebbero potuto ucciderli facilmente, ma non pensarono affatto di abbandonarsi a un massacro doppiamente inutile, tanto più che interessava loro non spaventare gli anfibi, che se ne stavano sdraiati sulla sabbia, a breve distanza. Rispettarono pure alcuni innocentissimi apterigidi, le cui ali, ridotte allo stato di moncherini, si appiattivano in forma di pinne, ornate di piume d’apparenza squamosa.

I coloni s’avanzarono, dunque, prudentemente verso la punta nord, camminando sul suolo crivellato di piccole pozze pantanose, che formavano altrettanti nidi d’uccelli acquatici. Verso l’estremità dell’isolotto si scorgevano grossi punti neri natanti a fior d’acqua. Si sarebbero detti calotte di scogli mobili.

Erano gli anfibi che dovevano venir catturati. Bisognava lasciarli prender terra, giacché, con il bacino stretto, il pelo corto e fitto, la conformazione fusiforme che hanno, le foche, eccellenti nuotatrici, sono difficili da prendersi in mare, mentre sul suolo i piedi corti e palmati non permettono loro che un movimento di reptazione poco rapido.

Pencroff conosceva le abitudini di questi anfibi, e consigliò di attendere che fossero distesi sulla sabbia, ai raggi del sole, che non avrebbe tardato a farli cadere in un profondo sonno. Si sarebbe manovrato allora, in modo da tagliar loro la ritirata e da colpirli sul muso.

I cacciatori si nascosero, dunque, dietro le rocce del lido, e aspettarono in silenzio.

Trascorse un’ora prima che le foche venissero a ruzzare sulla sabbia. Erano una mezza dozzina. Pencroff e Harbert si separarono dagli altri, allo scopo di aggirare la punta dell’isolotto, in modo da prenderle a tergo e da impedir loro la ritirata. Nel frattempo, Cyrus Smith, Gedeon Spilett e Nab, strisciando lungo le rocce, si portavano furtivamente verso il futuro teatro del combattimento.

Improvvisamente, il marinaio si mostrò in tutta l’altezza della propria statura. Gettò un grido. L’ingegnere e gli altri due compagni si gettarono precipitosamente fra il mare e le foche. Due di esse, vigorosamente colpite, rimasero morte sulla sabbia, ma le altre poterono riguadagnare il mare e prendere il largo.

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