Cyrus Smith aveva ascoltato l’entusiasta Pencroff spiegare i suoi progetti un po’ fantasiosi. Attaccare quella massa di granito, sia pure a colpi di mina, era un lavoro erculeo, ed era veramente sgradevole che la natura non avesse provveduto alla parte più dura del lavoro. Ma l’ingegnere non rispose al marinaio che proponendo di esaminare più attentamente la muraglia, dalla foce del fiume sino all’angolo con cui terminava a nord.
I coloni, dunque, uscirono, e l’esplorazione fu fatta su un’estensione di circa due miglia, con estrema cura. Ma la parete, tutta unita e diritta, non lasciò scorgere una cavità qualsiasi. I nidi dei piccioni di roccia che svolazzavano sulla cima, non erano, in realtà, che buchi fatti nella cresta e sull’orlo inegualmente frastagliato del granito.
Era una circostanza incresciosa, tanto più che non si poteva assolutamente pensare ad attaccare quella massa granitica né col piccone, né con la polvere per praticarvi un incavo sufficiente. Il caso aveva permesso che Pencroff scoprisse il solo ricovero provvisoriamente abitabile su tutta quella parte del litorale, vale a dire quei Camini, che pur bisognava abbandonare.
A esplorazione compiuta, i coloni si trovavano all’angolo nord della muraglia, ove essa finiva con lunghi pendii, lentamente digradanti fin sulla spiaggia. Da questo punto fino al suo estremo limite verso ovest, la muraglia stessa si riduceva a una specie di argine — una fitta agglomerazione di pietre, terra e sabbia, tenute insieme da piante, arboscelli ed erbe — una scarpata di quarantacinque gradi soltanto. Qua e là, il granito affiorava ancora con punte acute da quella specie di scogliera, sui pendii della quale erano sparsi gruppi d’alberi, mentre un’erba abbastanza folta la tappezzava. Ma lo sforzo vegetale non andava oltre, e una lunga pianura di sabbia, che cominciava ai piedi del terrapieno, si stendeva fino al litorale.
Cyrus Smith pensò, non senza ragione, che da quella parte doveva trovarsi il punto ove le acque sovrabbondanti del lago sboccavano sotto forma di cascata. Infatti, bisognava necessariamente che l’eccesso d’acque del Creek Rosso si rovesciasse in qualche punto. Ora, questo punto l’ingegnere non l’aveva ancora trovato lungo le rive già esplorate, vale a dire dalla foce del ruscello, a ovest, sino all’altipiano di Bellavista.
L’ingegnere propose, dunque, ai compagni di salire lungo il pendio che stavano allora osservando, e di ritornare ai Camini attraverso le alture, esplorando così le rive settentrionali e orientali del lago.
La proposta fu accettata, e in pochi minuti Harbert e Nab erano già arrivati sul pianoro. Cyrus Smith, Gedeon Spilett e Pencroff li seguirono con passo più posato.
A duecento piedi, si vedeva attraverso il fogliame la bella distesa d’acqua splendere sotto i raggi solari. Il paesaggio in quel punto era stupendo. Gli alberi, dai toni giallicci, si raggruppavano meravigliosamente per il piacere degli occhi. Alcuni enormi vecchi tronchi abbattuti dal tempo spiccavano, per la scorza nerastra, sul tappeto verdeggiante, che ricopriva il suolo. Là schiamazzava una folla di pappagalli chiassosi, veri prismi mobili, saltellanti da un ramo all’altro. Si sarebbe detto che la luce non arrivasse che decomposta attraverso quella singolare ramificazione.
I coloni, invece di raggiungere direttamente la riva nord del lago, si tennero sull’orlo del pianoro, in modo da arrivare alla foce del corso d’acqua restando sulla riva sinistra. Era un giro vizioso di un miglio e mezzo al più, ma la passeggiata era facile, poiché gli alberi, molto distanziati, lasciavano un comodo passaggio. Ci si accorgeva che là finiva la zona fertile; infatti, la vegetazione vi si mostrava meno rigogliosa che in tutta la parte compresa tra il corso del Creek Rosso e quello del Mercy.
Cyrus Smith e i suoi compagni camminavano con una certa circospezione su quel suolo nuovo per essi. Archi, frecce, bastoni con un ferro appuntito per manico, erano le loro sole armi. Ma nessuna belva pericolosa si mostrò; probabilmente, esse frequentavano piuttosto le folte foreste del sud; ma i coloni ebbero a un tratto la sgradita sorpresa di vedere Top fermarsi davanti a un serpente, che misurava da quattordici a quindici piedi di lunghezza. Nab lo ammazzò con un colpo di bastone. Cyrus Smith esaminò il rettile e dichiarò che non era velenoso, poiché apparteneva alla specie dei serpenti diamanti di cui si nutrono gli indigeni della Nuova Galles del Sud. Ma era possibilissimo che ne esistessero altri dalla morsicatura mortale, come, per esempio, le vipere sorde, a coda forcuta, che si drizzano sotto il piede dell’uomo, o i serpenti alati, muniti di due orecchiette che permettono loro di slanciarsi con estrema rapidità. Intanto Top, passato il primo momento di sorpresa, dava la caccia ai rettili con un accanimento che faceva temere per lui, tanto che il suo padrone lo richiamava continuamente.
La foce del Creek Rosso, nel punto ove esso si gettava nel lago, fu presto raggiunta. Gli esploratori riconobbero sulla riva opposta il luogo che già avevano visitato discendendo dal monte Franklin. Cyrus Smith constatò che il contributo d’acqua che il creek recava al lago era abbastanza notevole; era, dunque, indispensabile che in un punto qualunque la natura offrisse uno scarico all’eccesso d’acque del lago. Si trattava appunto di scoprire questo scarico, giacché, senza dubbio, esso formava una cascata, di cui sarebbe stato possibile utilizzare la forza meccanica.
I coloni, camminando ciascuno a proprio piacimento, ma senza troppo scostarsi gli uni dagli altri, presero dunque a percorrere la riva del lago, che era molto scoscesa. Le acque parevano estremamente pescose, e Pencroff si propose di fabbricare alcuni ordigni da pesca al fine di sfruttarle.
Bisognò dapprima doppiare la punta aguzza di nordest. Si sarebbe potuto supporre che lo scarico delle acque avvenisse in quel punto, poiché l’estremità del lago veniva quasi a pareggiare l’orlo del pianoro. Ma non era così e i coloni continuarono a esplorare la riva che, dopo una leggera curva, ridiscendeva parallelamente al litorale.
Da questo lato, la sponda del lago era meno boscosa, ma alcuni gruppi d’alberi, sparsi qua e là, rendevano anche più pittoresco il paesaggio. Il lago Grant si offriva allo sguardo in tutta la sua estensione e non un soffio increspava la superficie delle sue acque. Top, battendo la macchia, fece alzare a volo stormi d’uccelli vari, che Gedeon Spilett e Harbert salutarono con le loro frecce. Uno di quei volatili fu accortamente raggiunto dal ragazzo, e cadde ih mezzo alle erbe palustri. Top si precipitò verso di esso, e riportò un bell’uccello nuotatore, color ardesia, dal becco corto, dall’osso frontale sviluppatissimo, dalle dita allargate da un contorno festonato e con le ali ornate da un profilo bianco. Era una folaga, della grossezza di una bella pernice, appartenente al gruppo dei macrodattili, che costituisce la transizione fra l’ordine dei trampolieri e quello dei palmipedi. Magra selvaggina, dunque, e di un sapore che doveva lasciar molto a desiderare. Ma Top si sarebbe mostrato indubbiamente meno difficile dei suoi padroni: fu, quindi, convenuto che la folaga avrebbe servito alla sua cena.
I coloni percorrevano allora la riva orientale del lago e non dovevano essere molto lontani dalla parte già esplorata. L’ingegnere era meravigliatissimo di non vedere alcun indizio di scolo delle acque eccedenti e non dissimulava il proprio stupore al giornalista e al marinaio, che discorrevano con lui.
In quel momento, Top, che era stato calmissimo sino allora, diede segni di agitazione. L’intelligente animale andava e veniva sulla riva, si fermava poi improvvisamente e guardava le acque alzando una zampa, come se fosse stato in attesa di qualche invisibile preda; poi, abbaiava con furore, braccando, per così dire, indi taceva improvvisamente.
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