Il carro aspettava sulla spiaggia davanti ai Camini. Il giornalista aveva preteso che Harbert vi prendesse posto, almeno durante le prime ore del viaggio e il giovinetto dovette sottomettersi alle prescrizioni del suo medico.
Nab si mise alla testa degli onagri, Cyrus Smith, il giornalista e il marinaio precedevano. Top sgambettava allegramente, Harbert aveva offerto a Jup un posto nel suo veicolo e Jup aveva accettato senza complimenti. Il momento della partenza era giunto e la piccola comitiva si mise in marcia.
Il carro prima svoltò l’angolo alla foce del Mercy, e dopo aver risalito per un miglio la riva sinistra del fiume stesso, attraversò il ponte alla cui estremità incominciava la strada di Porto Pallone, e là gli esploratori, lasciandola a sinistra, si addentrarono sotto la volta degli immensi boschi, che formavano la regione del Far West.
Durante le due prime miglia gli alberi, largamente spaziati fra loro, permisero al carro di circolare liberamente: di tanto in tanto bisognava tagliare delle liane e folti cespugli, ma nessun ostacolo serio arrestò la marcia dei coloni.
I densi rami degli alberi mantenevano una fresca ombra sul suolo. Deodara, douglas, casuarine, banksie, acacie gommifere, dracene e altre specie già note ai coloni si succedevano a perdita d’occhio. Nell’isola si trovava ogni specie di uccelli comuni: tetraoni, jacamar, fagiani, lori, e tutta la ciarliera famiglia dei cacatoa e dei pappagalli, maschi e femmine. Aguti, canguri, capibara correvano fra le erbe e tutto ciò rammentava ai coloni le prime escursioni fatte al loro arrivo nell’isola.
«Però» fece notare Cyrus Smith «sembra che questi animali, sia quadrupedi che volatili, siano più paurosi di allora. Questi boschi sono, dunque, stati recentemente percorsi dai deportati, dei quali dobbiamo sicuramente trovare le tracce.»
E, infatti, in parecchi punti, i coloni poterono osservare tutti gli indizi del passaggio, più o meno recente, di un gruppetto d’uomini: qui, rami d’alberi rotti, forse nell’intento di segnare il cammino; là, le ceneri d’un fuoco spento e le impronte di passi, che certe parti argillose del terreno avevano conservate. Ma, insomma, niente che sembrasse appartenere a un accampamento stabile.
L’ingegnere aveva raccomandato ai compagni di astenersi dal cacciare. Le detonazioni delle armi da fuoco avrebbero potuto metter sull’avviso i deportati, che s’aggiravano forse nella foresta. Poi, i cacciatori sarebbero stati necessariamente trascinati dalla caccia a qualche distanza dal carro, mentre era severamente proibito avanzare isolati.
Nella seconda parte della giornata, a sei miglia circa da GraniteHouse, divenne abbastanza difficile procedere. Per poter passare attraverso certi folti macchioni, bisognò abbattere degli alberi e aprirsi una strada. Prima però di entrare in quei fitti cedui, Cyrus Smith aveva cura di mandare avanti Top e Jup, che adempivano coscienziosamente il loro compito, e quando il cane e la scimmia ritornavano senza aver segnalato nulla, voleva dire che niente v’era da temere, né da parte dei deportati, né da parte delle fiere, due specie di individui del regno animale, messe allo stesso livello dai loro feroci istinti.
La sera di quella prima giornata, i coloni si accamparono a circa nove miglia da GraniteHouse, in riva a un piccolo affluente del Mercy, di cui ignoravano l’esistenza e che doveva collegarsi al sistema idrografico da cui il suolo dell’isola traeva la sua meravigliosa fertilità.
Cenarono abbondantemente, giacché il loro appetito era stato fortemente eccitato dalla marcia, e vennero prese le misure necessarie perché la notte passasse senza incidenti. Se l’ingegnere avesse avuto a che fare solo con gli animali feroci, giaguari o altro, avrebbe semplicemente acceso dei fuochi intorno al suo accampamento, e questo sarebbe bastato a difenderlo; ma i deportati sarebbero stati piuttosto attratti che fermati dalle fiamme, ed era, quindi, meglio in questo caso circondarsi di tenebre.
La sorveglianza fu, del resto, severamente organizzata. Due coloni dovevano vegliare insieme ed era convenuto che ogni due ore i compagni avrebbero dato loro il cambio. Ora, siccome Harbert, malgrado le sue proteste, fu dispensato da quel compito, Pencroff e Gedeon Spilett da una parte, l’ingegnere e Nab dall’altra, montarono la guardia uno dopo l’altro agli accessi dell’accampamento.
Del resto, la notte durò appena poche ore. L’oscurità era dovuta piuttosto alla folta cupola delle fronde che all’assenza del sole. Il silenzio fu appena turbato dai rauchi urli dei giaguari e dal ghignare delle scimmie, che sembrava irritare particolarmente mastro Jup.
La notte passò senza incidenti, e il giorno successivo, 16 febbraio, la marcia, più lenta che faticosa, venne ripresa attraverso la foresta.
In quel giorno, la comitiva non poté fare che sei miglia, perché a ogni momento bisognava aprirsi la strada con l’accetta. Da veri settlers, i coloni risparmiavano gli alberi grandi e belli, il cui taglio, d’altra parte, sarebbe costato loro enormi fatiche, e sacrificavano i piccoli; ma ne risultava che la strada prendeva una direzione poco rettilinea e s’allungava in numerose svolte.
Nel corso della giornata Harbert scoprì nuove specie di piante, la cui presenza non era ancora stata segnalata nell’isola, e cioè delle felci arborescenti, con foglie a palma ricadenti, che sembravano espandersi come le acque d’una fontana; dei carrubi, di cui gli onagri brucarono avidamente i lunghi baccelli dalle polpe zuccherine di sapore eccellente. I coloni trovarono pure colà dei magnifici kauri, disposti a gruppi, i cui tronchi cilindrici, coronati da un cono di verzura, s’elevavano a un’altezza di duecento piedi. Erano quelli i tipici alberi della Nuova Zelanda, celebri quanto i cedri del Libano.
Quanto alla fauna, essa non presentò altri esemplari che quelli già sino allora conosciuti dai cacciatori. Intravidero, però, ma senza poterla avvicinare, una coppia di quei grandi uccelli propri dell’Australia, specie di casuari chiamati emù, alti cinque piedi, bruni di penne, che appartengono all’ordine dei trampolieri. Top si slanciò dietro di loro con tutta la velocità delle sue quattro zampe, ma i casuari lo distanziarono facilmente, tanto era prodigiosa la loro rapidità.
Quanto alle tracce lasciate dai deportati nella foresta, se ne rilevarono altre. Vicino a un fuoco, che sembrava spento da poco, i coloni osservarono delle impronte che esaminarono con estrema attenzione. Misurandole l’una dopo l’altra, secondo la loro lunghezza e larghezza, fu facile individuare la traccia dei piedi di cinque uomini. I cinque deportati si erano evidentemente accampati in quel punto, ma — e questo era l’oggetto d’un così minuzioso esame! — non fu possibile scoprire una sesta impronta, che sarebbe stata quella del piede di Ayrton.
«Ayrton non era con loro» disse Harbert.
«No,» rispose Pencroff «e se non era con loro, vuol dire che i miserabili l’hanno già ucciso! Ma quei farabutti non hanno, dunque, una tana dove si possa braccarli come tigri?»
«No» rispose il giornalista. «È più probabile che vadano alla ventura, ed è loro interesse, del resto, errare così, fino al momento in cui saranno padroni dell’isola.»
«Padroni dell’isola!…» esclamò Pencroff. «Padroni dell’isola!…» ripeté, e la sua voce era strozzata, come se una mano di ferro l’avesse afferrato alla gola. Poi, in tono più calmo: «Sapete, signor Cyrus,» disse «che palla ho messo nel mio fucile?»
«No, Pencroff!»
«La palla che ha attraversato il petto di Harbert e vi prometto ch’essa non fallirà il colpo!»
Ma queste giuste rappresaglie non potevano però rendere la vita ad Ayrton; e dall’esame delle impronte lasciate sul terreno, i coloni dovevano, ahimè! concludere che non c’era più nessuna speranza di rivederlo!
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