Jules Verne - L’Isola Misteriosa

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L’Isola Misteriosa: краткое содержание, описание и аннотация

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Questo straordinario romanzo presenta non poche analogie con Robinson Crusoe, dello scrittore inglese Defoe, di cui Verne era un grande ammiratore. Anche qui, la situazione è press’a poco la stessa: alcuni naufraghi approdano fortunosamente su un’isola deserta e lottano disperatamente per sopravvivere. Ma se Robinson, di fronte alla natura selvaggia, incarnava l’uomo del ‘700, che si industria come può, ricorrendo ai piccoli espedienti suggeritigli dalla ragione, senza altri strumenti che le proprie mani, i cinque naufraghi protagonisti di questo libro incarnano la nuova idea dell’uomo «scientifico» qual era concepito nella seconda metà dell’800, l’uomo che domina ormai la natura in virtù di una tecnologia progredita che gli permette di trasformare rapidamente un’isola selvaggia in una colonia civile. Non a caso Robinson è un uomo comune, un marinaio, ed è solo, a lottare contro le forze cieche della natura, mentre qui siamo dì fronte a una vera e propria équipe, composta da persone di estrazione e di competenze diverse, ma guidata da un ingegnere e scienziato, Cyrus Smith…

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Soltanto nel corso della notte precedente i deportati s’erano mostrati sull’estremo limite della foresta nei pressi del Creek Glicerina. Nab, che vegliava presso il pollaio, non aveva esitato a far fuoco su uno di essi, che si accingeva ad attraversare il corso d’acqua; ma, poiché la notte era piuttosto scura, non aveva potuto sapere se quel miserabile era stato colpito. A ogni modo, lo sparo non era bastato ad allontanare la banda e Nab aveva avuto appena il tempo di risalire a GraniteHouse, ove, almeno, si trovò al sicuro.

Che cosa fare allora? Come impedire la devastazione di cui i deportati minacciavano l’altipiano? Aveva Nab la possibilità di comunicare con il suo padrone? E, d’altra parte, in quale situazione si trovavano anch’essi, gli ospiti del recinto?

Cyrus Smith e i suoi compagni erano partiti l’11 novembre ed era ormai il 29. In quei diciannove giorni Nab non aveva avuto altre notizie se non quelle recate da Top, che erano disastrose: Ayrton sparito, Harbert gravemente ferito, l’ingegnere, il giornalista, il marinaio, prigionieri, per così dire, nel recinto!

Che cosa fare? si chiedeva il povero Nab. Per sé, personalmente, nulla da temere, giacché i deportati non potevano raggiungerlo entro GraniteHouse. Ma le costruzioni, le piantagioni, tutti i frutti di tanto lavoro in balia dei pirati! Non era meglio lasciare Cyrus Smith giudice di quel che vi sarebbe stato da fare e prevenirlo, almeno, del pericolo che li sovrastava?

Nab ebbe allora l’idea di servirsi di Jup, affidandogli un biglietto. Conosceva l’estrema intelligenza dell’orango, ch’era stata sovente messa alla prova. Jup comprendeva la parola recinto, pronunciata spesso in sua presenza, e varie volte aveva condotto colà il carro in compagnia di Pencroff. Non era ancora giorno fatto. L’agile orango avrebbe certo saputo passare inosservato nei boschi, di cui, d’altronde, i pirati l’avrebbero creduto un abitatore.

Nab non esitò. Scrisse il biglietto, l’attaccò al collo di Jup, condusse la scimmia alla porta di GraniteHouse, dalla quale lasciò scendere fino a terra una lunga corda; poi, a più riprese, gli ripete queste parole:

«Jup! Jup! Recinto! Recinto!».

L’animale comprese, afferrò la corda, si lasciò scivolare rapidamente fin sul greto e disparve nell’ombra, senza che l’attenzione dei deportati fosse stata menomamente destata.

«Hai fatto bene, Nab,» rispose Cyrus Smith «ma, non avvertendoci, forse avresti fatto meglio ancora!»

E così dicendo Cyrus Smith pensava ad Harbert, il cui trasporto sembrava averne gravemente compromesso la convalescenza.

Nab finì il suo racconto. I deportati non s’erano mostrati sulla spiaggia. Non conoscendo il numero degli abitanti dell’isola, potevano supporre che GraniteHouse fosse difesa da forze rilevanti. Dovettero ricordarsi che, durante l’attacco del brigantino, numerosi colpi di armi da fuoco li avevano accolti, tanto dalle rocce inferiori, che da quelle superiori, e indubbiamente non vollero esporsi. Ma l’altipiano di Bellavista era loro aperto e non cadeva sotto i tiri di GraniteHouse. Essi si abbandonarono, dunque, al loro istinto di depredazione, saccheggiando, bruciando, facendo il male per il male, e non si ritirarono che mezz’ora prima dell’arrivo dei coloni, che, forse, credevano ancora rinchiusi nel recinto.

Nab s’era precipitato fuori del suo rifugio. Era risalito sull’altipiano, a rischio di esser colpito da qualche proiettile; aveva tentato di spegnere l’incendio, che distruggeva le costruzioni del pollaio, lottando, ma invano, contro il fuoco, sino al momento in cui il carro era apparso al limite del bosco.

Questi erano stati i gravi avvenimenti svoltisi durante l’assenza dei coloni. Era evidente che la presenza dei deportati costituiva una minaccia permanente per i coloni dell’isola di Lincoln, sino allora così felici, e che adesso invece, potevano aspettarsi sventure anche più gravi!

Gedeon Spilett rimase a GraniteHouse, vicino ad Harbert e a Pencroff, mentre Cyrus Smith, accompagnato da Nab, andò a esaminare con i suoi occhi l’entità del disastro.

Era una fortuna che i deportati non si fossero avanzati sino ai piedi di GraniteHouse. I laboratori dei Camini non sarebbero sfuggiti alla devastazione. Ma, tutto considerato, questo male sarebbe stato forse più facilmente riparabile delle rovine accumulate sull’altipiano di Bellavista!

Cyrus Smith e Nab si diressero verso il Mercy e ne risalirono la riva sinistra senza incontrare alcuna traccia del passaggio dei deportati. Nemmeno dall’altra parte del fiume, nel fitto bosco, ebbero a osservare indizi sospetti.

D’altra parte, ecco ciò che si poteva pensare, secondo ogni probabilità: o i deportati sapevano del ritorno dei coloni a GraniteHouse, per averli veduti passare sulla strada del recinto; o, dopo la devastazione dell’altipiano, s’erano cacciati nel bosco dello Jacamar, seguendo il corso del Mercy, e ignoravano il loro ritorno.

Nel primo caso, erano senza dubbio ritornati verso il recinto ormai indifeso, e che racchiudeva risorse per loro preziose.

Nel secondo caso dovevano aver raggiunto di nuovo il loro accampamento, ivi aspettando qualche buona occasione per ricominciare l’attacco.

V’era, dunque, modo di prevenirli; ma ogni impresa destinata a sbarazzar l’isola era ancora subordinata alle condizioni di salute di Harbert. Infatti, Cyrus Smith avrebbe avuto bisogno dei suoi compagni e nessuno poteva, in quel momento, abbandonare GraniteHouse.

L’ingegnere e Nab arrivarono sull’altipiano. Era una desolazione. I campi erano stati calpestati. Le spighe, mature per essere mietute, giacevano al suolo. Le altre colture non avevano sofferto meno. L’orto era sconvolto. Fortunatamente GraniteHouse possedeva una riserva di sementi, che avrebbe permesso di riparare quei danni.

Quanto al mulino, alle costruzioni del cortile, alla stalla degli onagri, il fuoco aveva distrutto tutto. Alcuni animali spauriti vagavano qua e là per l’altipiano. I volatili, che durante l’incendio s’erano rifugiati sulle acque del lago, ritornavano già alle loro sedi abituali lungo le rive. Là tutto era da rifare.

Il volto di Cyrus Smith, più pallido del solito, denotava una collera interna dominata a fatica; ma egli non disse una sola parola. Guardò un’ultima volta i suoi campi devastati, il fumo che s’innalzava ancora dalle rovine, poi ritornò a GraniteHouse.

I giorni che seguirono furono i più tristi che i coloni avessero sino allora trascorsi nell’isola. La debolezza di Harbert aumentava visibilmente. Sembrava che una malattia più grave, conseguenza della profonda prostrazione fisiologica subita, lo minacciasse, e Gedeon Spilett presentiva un così forte aggravamento del suo stato da sentirsi impotente a combatterlo.

Infatti, Harbert rimaneva in un assopimento quasi continuo e alcuni sintomi di delirio cominciarono a manifestarsi. Le tisane rinfrescanti erano i soli rimedi a disposizione dei coloni. La febbre non era ancora fortissima, ma presto parve volersi stabilire in accessi a intermittenza regolare.

Gedeon Spilett se ne rese conto il 6 dicembre. Il povero ragazzo, il cui naso, le dita, le orecchie divennero estremamente pallidi, fu dapprima preso da leggeri brividi, da sudore freddo, da tremiti. Il battito del polso era breve e irregolare, la pelle secca; aveva inoltre una sete intensa. A questo periodo successe una fase di calore: il viso s’animò, la pelle arrossò, il polso si accelerò; poi si manifestò un sudore abbondante, in seguito al quale la febbre parve diminuire. L’accesso era durato cinque ore circa.

Gedeon Spilett non aveva lasciato un momento Harbert, affetto adesso da una febbre intermittente, questo era ormai certo, purtroppo. E questa febbre doveva essere arrestata a ogni costo, prima che aumentasse ancora.

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