Jules Verne - L’Isola Misteriosa

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L’Isola Misteriosa: краткое содержание, описание и аннотация

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Questo straordinario romanzo presenta non poche analogie con Robinson Crusoe, dello scrittore inglese Defoe, di cui Verne era un grande ammiratore. Anche qui, la situazione è press’a poco la stessa: alcuni naufraghi approdano fortunosamente su un’isola deserta e lottano disperatamente per sopravvivere. Ma se Robinson, di fronte alla natura selvaggia, incarnava l’uomo del ‘700, che si industria come può, ricorrendo ai piccoli espedienti suggeritigli dalla ragione, senza altri strumenti che le proprie mani, i cinque naufraghi protagonisti di questo libro incarnano la nuova idea dell’uomo «scientifico» qual era concepito nella seconda metà dell’800, l’uomo che domina ormai la natura in virtù di una tecnologia progredita che gli permette di trasformare rapidamente un’isola selvaggia in una colonia civile. Non a caso Robinson è un uomo comune, un marinaio, ed è solo, a lottare contro le forze cieche della natura, mentre qui siamo dì fronte a una vera e propria équipe, composta da persone di estrazione e di competenze diverse, ma guidata da un ingegnere e scienziato, Cyrus Smith…

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«E per arrestarla,» disse Gedeon Spilett a Cyrus Smith «occorre un febbrifugo.»

«Un febbrifugo!…» rispose l’ingegnere. «Non abbiamo né china, né solfato di chinino!»

«No» disse Gedeon Spilett «ma ci sono dei salici sull’orlo del lago, e la corteccia del salice può qualche volta sostituire il chinino.»

«Proviamo, dunque, senza perdere un istante!» rispose Cyrus Smith. La corteccia del salice, infatti, è stata giustamente considerata come un

succedaneo della china, così come l’ippocastano, la foglia dell’agrifoglio, la serpentaria, ecc. Bisognava evidentemente provare quella sostanza, quantunque non valesse la china, e adoperarla allo stato naturale, perché mancavano i mezzi per estrarne l’alcaloide, vale a dire la salicina.

Cyrus Smith andò egli stesso a tagliare dal tronco d’una specie di salice nero alcuni pezzi di corteccia; li portò a GraniteHouse, li ridusse in polvere e questa polvere fu somministrata ad Harbert la sera stessa.

La notte passò senza gravi incidenti. Harbert ebbe un po’ di delirio, ma la febbre non ritornò nella notte, né durante il giorno seguente.

Pencroff ricominciò a sperare. Gedeon Spilett taceva. Poteva darsi che le intermittenze non fossero quotidiane, che la febbre fosse terzana, in una parola, e che ritornasse, quindi, il giorno dopo. Per conseguenza, i coloni attendevano l’indomani con la più viva ansietà.

Era da notare, inoltre, che, durante il periodo d’apiressia, Harbert rimaneva molto abbattuto, gli pesava la testa ed era facile agli stordimenti. Ma un nuovo sintomo sgomentò al massimo grado il cronista: il fegato di Harbert cominciava a congestionarsi, e poco dopo un delirio più intenso dimostrò che anche il suo cervello era attaccato dalla congestione.

Gedeon Spilett sentì che il coraggio lo abbandonava davanti a questa nuova complicazione. Chiamò in disparte l’ingegnere.

«È una febbre perniciosa!» gli disse.

«Una febbre perniciosa!» esclamò Cyrus Smith. «Vi ingannate, Spilett. La febbre perniciosa non si manifesta spontaneamente. Bisogna averne contratto il germe!…»

«Non mi sbaglio» rispose il giornalista. «Harbert avrà indubbiamente contrattoli germe nelle paludi dell’isola, ed è quanto basta. Ha già avuto un primo attacco. Se ne sopravviene un secondo e non riusciamo a impedire il terzo… è perduto!…»

«Ma questa corteccia di salice?…»

«È insufficiente,» rispose il giornalista «e un terzo attacco di febbre perniciosa, se non cessa per mezzo del chinino, è sempre mortale!»

Fortunatamente, Pencroff non aveva udito una parola di questa conversazione. Sarebbe impazzito.

Si può immaginare in quale inquietudine vissero l’ingegnere e il giornalista durante quella giornata del 7 dicembre e la notte seguente.

Verso la metà della giornata, si verificò il secondo accesso. La crisi fu terribile. Harbert si sentiva perduto! Tendeva le braccia verso Cyrus Smith, verso Spilett, verso Pencroff! Non voleva morire!… La scena fu straziante. Bisognò allontanare Pencroff.

L’attacco durò cinque ore. Era evidente che Harbert non ne avrebbe sopportato un terzo.

La notte fu spaventosa. Nel suo delirio, Harbert diceva cose che spezzavano il cuore dei suoi compagni! Vaneggiava, lottava contro i deportati, chiamava Ayrton! Supplicava l’essere misterioso, il protettore, sparito ormai e la cui immagine l’ossessionava… Poi ricadeva in una prostrazione profonda, che lo annientava completamente… Parecchie volte Gedeon Spilett credette che il povero giovane fosse morto!

La giornata successiva, 8 dicembre, non fu che un succedersi di allarmi. Le mani smagrite di Harbert si contraevano sulle lenzuola. Gli erano state somministrate nuove dosi di corteccia pestata, ma il giornalista non si aspettava alcun risultato.

«Se prima di domani mattina non gli abbiamo dato un febbrifugo più energico» disse il giornalista «Harbert sarà morto!»

E venne la notte, l’ultima indubbiamente di quel ragazzo coraggioso, buono, intelligente, tanto superiore alla sua età e che tutti amavano come un figlio! Il solo rimedio che esistesse contro quella terribile febbre perniciosa, il solo specifico che potesse vincerla, non si trovava nell’isola di Lincoln!

Durante quella notte, dall’8 al 9 dicembre, Harbert fu ripreso da un delirio più intenso. Il suo fegato era orribilmente congestionato, il suo cervello colpito, ed era ormai impossibile che riconoscesse alcuno.

Sarebbe vissuto sino all’indomani, fino a quel terzo accesso, che doveva immancabilmente portarlo via? Non vi era più da sperarlo. Le sue forze erano esaurite, e nell’intervallo fra una crisi e l’altra, sembrava esanime.

Verso le tre del mattino Harbert mandò un urlo spaventoso. Sembrò contorcersi in una suprema convulsione. Nab, ch’era presso di lui, spaventato si precipitò nella camera vicina, dove gli altri vegliavano.

In quel mentre Top abbaiò in modo strano…

Tutti accorsero subito e riuscirono a trattenere il giovane morente, che voleva gettarsi dal letto, mentre Gedeon Spilett, prendendogli il braccio, sentiva il polso rianimarsi a poco a poco…

Erano le cinque del mattino. I raggi del sole che spuntava cominciavano a penetrare nelle stanze di GraniteHouse. S’annunciava una bella giornata e questa giornata sarebbe stata l’ultima per il povero Harbert!

Un raggio s’insinuò sino alla tavola vicina al letto.

Improvvisamente Pencroff, cacciando un grido, mostrò un oggetto posto sulla tavola.

Era una scatoletta oblunga, che portava sul coperchio queste parole:

Solfato di chinino.

CAPITOLO XI

INESPLICABILE MISTERO «LA CONVALESCENZA DI HARBERT» LE PARTI DELL’ISOLA DA ESPLORARE «PREPARATIVI DI PARTENZA» PRIMA GIORNATA «LA NOTTE» SECONDA GIORNATA «I KAURI» LA COPPIA DI CASUARI «IMPRONTE DI PASSI NELLA FORESTA» ARRIVO AL PROMONTORIO DEL RETTILE

GEDEON SPILETT prese la scatola e l’aprì. Conteneva circa duecento granelli d’una polvere bianca, di cui portò alle labbra qualche particella. Il sapore molto amaro di quella sostanza non poteva lasciar dubbi. Era proprio il prezioso alcaloide della china, l’antiperniciosa per eccellenza.

Bisognava somministrare senza indugio quella polvere ad Harbert. Sul come essa si trovasse là, si sarebbe discusso più tardi.

«Un po’ di caffè» chiese Gedeon Spilett.

Pochi istanti dopo, Nab portava una tazza della tiepida bevanda. Gedeon Spilett vi gettò circa diciotto grani (Nota: 10 grammi. Fine nota) di chinino e fece bere questa mistura ad Harbert.

Si era ancora in tempo, giacché il terzo accesso della febbre perniciosa non s’era manifestato!

E, sia concesso di aggiungere, non doveva più ritornare!

D’altra parte, bisogna pur dirlo, tutti avevano ripreso speranza. L’influenza misteriosa s’era nuovamente manifestata, in un momento supremo, quando si disperava di essa!…

In capo ad alcune ore, Harbert riposava più tranquillamente. I coloni poterono allora parlare di quell’ultimo fatto. L’intervento dello sconosciuto era più evidente che mai. Ma come aveva egli potuto penetrare, durante la notte, in GraniteHouse? Era assolutamente inesplicabile e, in verità, il modo di procedere del «genio dell’isola» era non meno strano del genio medesimo.

Nel corso di quella giornata, e di tre ore in tre ore circa, il solfato di chinino fu somministrato ad Harbert. Harbert, sin dall’indomani cominciò a risentire un certo miglioramento. Tuttavia, egli non era ancora guarito, e le febbri intermittenti sono soggette a frequenti e pericolose ricadute; ma le cure non gli mancarono. Eppoi, lo specifico era là e non lungi, indubbiamente, era colui che l’aveva portato. Insomma, un’immensa speranza rinacque in tutti i cuori.

Questa speranza non fu delusa. Dieci giorni dopo, il 20 dicembre, Harbert entrava in convalescenza. Era debole ancora e gli era stata imposta una severa dieta, ma non gli era più tornato nessun accesso di febbre. Eppoi, il docile ragazzo si sottometteva così volentieri a tutte le prescrizioni! Aveva tanta voglia di guarire!

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