Il suo sguardo cadde nell’unica stanza che formava il pianterreno della casa.
Sulla tavola brillava una lanterna accesa. Vicino alla tavola era il letto che serviva un tempo ad Ayrton.
Sul letto riposava il corpo di un uomo.
Di colpo Cyrus Smith indietreggiò e con voce soffocata:
«Ayrton!» gridò.
Tosto la porta fu più sfondata che aperta e i coloni si precipitarono nella stanza.
Ayrton pareva dormire. Il suo viso attestava che aveva lungamente e crudelmente sofferto. Ai polsi e alle caviglie gli si vedevano larghe lividure.
Cyrus Smith si chinò su di lui.
«Ayrton!» chiamò l’ingegnere, afferrando le braccia di colui che veniva ritrovato in circostanze tanto inattese.
A quella voce Ayrton aprì gli occhi e guardando in faccia prima Cyrus Smith e poi gli altri:
«Voi!» esclamò «voi!»
«Ayrton! Ayrton!» ripeté Cyrus Smith.
«Dove sono?»
«Nell’abitazione del recinto.»
«Solo?»
«Sì!»
«Ma stanno per venire!» gridò Ayrton. «Difendetevi, difendetevi! E Ayrton ricadde giù estenuato.»
«Spilett,» disse allora l’ingegnere «possiamo essere attaccati da un momento all’altro. Fate entrare il carro nel recinto. Poi, sprangate la porta e ritornate tutti qui.»
Pencroff, Nab e il giornalista s’affrettarono a eseguire gli ordini dell’ingegnere. Non c’era un istante da perdere. Forse il carro era già in mano ai deportati.
In un baleno, il giornalista e i suoi due compagni attraversarono il recinto e raggiunsero la porta della palizzata, dietro la quale si sentiva Top brontolare sordamente.
L’ingegnere, staccandosi per un istante da Ayrton, uscì dalla casa, pronto a far fuoco. Harbert era al suo fianco. Ambedue sorvegliavano la cresta del contrafforte che dominava il recinto. Se i deportati erano nascosti in quel punto, potevano benissimo colpire i coloni uno dopo l’altro.
In quel momento la luna apparve all’est sopra il nero velario della foresta, e una bianca distesa di luce dilagò nell’interno del recinto. Il recinto s’illuminò tutto, con i suoi gruppi d’alberi, il piccolo corso d’acqua che lo irrigava e il suo ampio tappeto d’erba. Dal lato della montagna la casa e una parte della palizzata spiccavano avvolte nel biancore lunare. Dalla parte opposta, verso la porta, il recinto rimaneva nell’oscurità.
In breve, una massa nera si mostrò. Era il carro che entrava nel cerchio di luce, e Cyrus Smith poté udire il rumore della porta che i suoi compagni richiudevano e di cui assicuravano solidamente i battenti all’interno.
Ma in quel momento, Top, rompendo violentemente il guinzaglio, si mise ad abbaiare con furore e si slanciò verso il fondo del recinto.
«Attenzione, amici, e pronti a far fuoco!…» gridò Cyrus Smith.
I coloni avevano spianato i fucili e aspettavano il momento di far fuoco. Top abbaiava sempre e Jup correndo dietro il cane mandò dei sibili acuti.
I coloni lo seguirono e arrivarono sull’orlo del ruscelletto, ombreggiato da grandi alberi.
E là, in piena luce, che cosa videro?
Cinque corpi, stesi sulla proda!
Erano i corpi dei deportati sbarcati quattro mesi prima nell’isola di Lincoln!
CAPITOLO XIII
IL RACCONTO DI AYRTON «I PROGETTI DEI SUOI COMPLICI DVN TEMPO» LORO SISTEMAZIONE AL RECINTO «IL GIUSTIZIERE DELL’ISOLA DI LINCOLN» IL «BONADVENTURE» «RICERCHE INTORNO AL MONTE FRANKLIN» LE VALLI SUPERIORI «ROMBI SOTTERRANEI» UNA RISPOSTA DI PENCROFF «IN FONDO AL CRATERE» RITORNO
CHE COS’ÈRA successo? Chi aveva colpito i deportati? Era stato Ayrton? No, perché un momento prima egli paventava il loro ritorno!
Ayrton era allora in preda a un assopimento profondo, dal quale non fu possibile destarlo. Dopo le poche parole che aveva pronunciate, un pesante torpore s’era impadronito di lui ed era ricaduto immobile sul letto.
I coloni, in preda a mille pensieri confusi, dominati da una violenta sovreccitazione, attesero tutta la notte, senza lasciare la casa di Ayrton, senza ritornare al luogo ove giacevano i corpi dei deportati. A proposito delle circostanze in cui questi avevano trovato la morte, era probabile che lo stesso Ayrton nulla potesse dir loro, poiché egli non sapeva nemmeno di trovarsi nel recinto. Ma sarebbe stato almeno in grado di raccontare i fatti che avevano preceduto quella terribile esecuzione.
L’indomani Ayrton uscì da quel torpore e i suoi compagni poterono testimoniargli cordialmente tutta la gioia che provavano nel rivederlo, pressoché sano e salvo, dopo centoquattro giorni di separazione.
Ayrton raccontò allora, in poche parole, quello che era accaduto, o, per lo meno, quello che egli sapeva.
All’indomani del suo arrivo al recinto, il 10 novembre, al cader della notte, egli fu sorpreso dai deportati, che avevano scalato la cinta. Essi lo legarono e lo imbavagliarono; poi fu condotto in un’oscura caverna, ai piedi del monte Franklin, là dove i deportati si erano rifugiati.
La sua morte era stata decisa e il giorno seguente sarebbe stato ucciso, quando uno dei deportati lo riconobbe e lo chiamò con il nome che portava in Australia. Quei miserabili volevano massacrare Ayrton! Rispettarono invece Ben Joyce!
Ma, da quel momento, Ayrton fu tormentato dalle continue pressioni dei suoi complici d’un tempo. Essi volevano ricondurlo a loro, e contavano su di lui per impadronirsi di GraniteHouse, per penetrare in quell’inaccessibile dimora, e per diventare padroni dell’isola, dopo averne assassinato i coloni!
Ayrton resistette. L’ex deportato, pentito e perdonato, sarebbe morto piuttosto che tradire i suoi compagni.
Ayrton, legato, imbavagliato, guardato a vista, visse in quella caverna per quattro mesi.
Intanto i deportati, che poco tempo dopo il loro arrivo nell’isola avevano scoperto il recinto, vivevano delle sue riserve, ma tuttavia non l’abitavano. L’11 novembre, due dei banditi, inopinatamente sorpresi dall’arrivo dei coloni, fecero fuoco su Harbert e uno di essi ritornò, vantandosi d’aver ucciso uno degli abitanti dell’isola, ma ritornò solo. Il suo compagno, com’è noto, era caduto sotto il pugnale di Cyrus Smith.
Si può immaginare l’inquietudine e la disperazione di Ayrton, allorché ebbe la notizia della morte di Harbert! Dunque, pensava, i coloni non erano che quattro, ormai, e per così dire, alla mercé dei deportati!
Dopo questo avvenimento e durante tutto il tempo che i coloni passarono al recinto, trattenutivi dalla malattia di Harbert, i pirati non abbandonarono la loro caverna, e nemmeno dopo aver devastato l’altipiano di Bellavista credettero prudente abbandonarla.
Allora i cattivi trattamenti inflitti ad Ayrton raddoppiarono. Le sue mani e i suoi piedi portavano ancora la sanguinante impronta dei lacci, che lo stringevano giorno e notte. A ogni istante si aspettava la morte, cui gli pareva impossibile sfuggire.
Le cose continuarono così fino alla terza settimana di febbraio. I deportati, spiando sempre un’occasione favorevole, lasciarono raramente il loro nascondiglio e non fecero che alcune battute di caccia nell’interno dell’isola o fino alla costa meridionale. Ayrton non aveva più notizie dei suoi amici, che più non sperava di rivedere!
Infine, lo sventurato, indebolito dai maltrattamenti, cadde in una prostrazione profonda, che non gli permise più né di vedere, né di sentire. Cosicché, a datare da quel momento, cioè da due giorni, non sapeva nemmeno dire quello ch’era accaduto.
«Ma, signor Smith,» aggiunse poi «se ero imprigionato in quella caverna, come mai mi ritrovo al recinto?»
«Com’è che i deportati si trovano morti là, in mezzo al recinto?» rispose l’ingegnere.
«Morti?» esclamò Ayrton, che, malgrado la debolezza, si sollevò a metà sul letto.
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