Le esplorazioni furono allora spinte nella regione delle dune. Vennero visitate con cura le alte muraglie laviche del golfo del Pescecane, dalla base alla cresta, quantunque fosse estremamente difficile scendere al livello delle acque. Nessuno! Nulla!
In queste due parole si riassunsero tante fatiche spese inutilmente, tanta ostinazione senza risultato. Nella delusione di Cyrus Smith e dei suoi compagni c’era una specie di collera.
Bisognò, dunque, pensare al ritorno, giacché le ricerche non potevano protrarsi all’infinito. I coloni erano ormai veramente in diritto di credere che l’essere misterioso non risiedesse alla superficie dell’isola, e la loro immaginazione eccitatissima diede la stura alle più folli ipotesi. Pencroff e Nab particolarmente non s’accontentavano più dello strano e si lasciavano trasportare nel mondo del soprannaturale.
Il 25 febbraio, i coloni rientrarono a GraniteHouse e per mezzo della doppia corda, che una freccia portò sul pianerottolo, dinanzi alla porta, ristabilirono la comunicazione fra il loro dominio e il suolo.
Un mese dopo, nel venticinquesimo giorno di marzo, essi salutavano il terzo anniversario del loro arrivo sull’isola di Lincoln!
CAPITOLO XIV
SONO PASSATI TRE ANNI «IL PROBLEMA DELLA NUOVA NAVE» LA DECISIONE «PROSPERITÀ DELLA COLONIA» IL CANTIERE DI COSTRUZIONE «I FREDDI DELL’EMISFERO AUSTRALE» PENCROFF SI RASSEGNA «IL BUCATO» IL MONTE FRANKLIN
TRE ANNI erano passati da che i prigionieri di Richmond erano fuggiti, e quante volte, durante quei tre anni, avevano parlato della patria, sempre presente al loro pensiero!
Erano convinti che la guerra civile fosse ormai finita e sembrava loro impossibile che la giusta causa del Nord non avesse trionfato. Ma quali erano state le vicende di quella guerra terribile? Quanto sangue era costata? Quali dei loro amici erano caduti nella lotta? Ecco gli argomenti di cui spesso parlavano, pur senza immaginare ancora il giorno in cui avrebbero potuto rivedere il loro Paese. Ritornarvi, magari solo per pochi giorni, riannodare il vincolo sociale con il mondo abitato, stabilire una comunicazione fra la loro patria e la loro isola, poi passare la maggior parte, la migliore forse anche, della loro esistenza in quella colonia, che avevano fondata e che sarebbe dipesa allora dalla metropoli, era questo, dunque un sogno inattuabile?
Ma non c’erano che due modi per realizzare questo sogno: o che un giorno o l’altro una nave si mostrasse nelle acque dell’isola di Lincoln, o che i coloni stessi costruissero uh bastimento abbastanza robusto per tenere il mare fino alle terre più vicine.
«A meno che» diceva Pencroff «il nostro genio ci provveda egli stesso dei mezzi per rimpatriare!»
Se, veramente, qualcuno avesse detto a Pencroff e a Nab che una nave di trecento tonnellate li aspettava nel golfo del Pescecane o a Porto Pallone, essi non avrebbero fatto nemmeno un gesto di sorpresa. È chiaro che con questa disposizione di spirito, nulla pareva loro impossibile. Nel campo dell’inverosimile, del miracoloso, s’aspettavano di tutto.
Ma Cyrus Smith, meno fiducioso, consigliò loro di rientrare nella realtà, e questo appunto relativamente alla costruzione d’un bastimento, faccenda di vera e propria urgenza, perché si trattava di depositare al più presto all’isola di Tabor un documento indicante la nuova residenza di Ayrton.
Non esistendo più il Bonadventure, sei — mesi sarebbero occorsi per la costruzione di un nuovo bastimento. Ora, l’inverno era alle porte e il viaggio non si sarebbe potuto effettuare prima della successiva primavera.
«Abbiamo, quindi, il tempo di prepararci per essere pronti alla bella stagione,» disse l’ingegnere, parlando di queste cose con Pencroff. «Penso, dunque, amico mio, che dovendosi costruire la nostra imbarcazione, sarà preferibile darle delle dimensioni più considerevoli. L’arrivo dello yacht scozzese all’isola di Tabor è molto problematico. Può darsi che, giunto da vari mesi, esso ne sia già ripartito, dopo aver vanamente cercato qualche traccia di Ayrton. Non sarebbe, dunque, opportuno costruire una nave che, all’occorrenza, potesse trasportarci sia agli arcipelaghi della Polinesia, sia alla Nuova Zelanda? Che cosa ne pensate?»
«Penso, signor Cyrus,» rispose il marinaio «penso che voi siete capace di fabbricare tanto una nave grande quanto una piccola. Né il legno, né gli utensili ci mancano. Non è che questione di tempo.»
«E quanti mesi richiederebbe la costruzione di una nave di duecentocinquanta o trecento tonnellate?» domandò Cyrus Smith.
«Sette od otto mesi almeno» rispose Pencroff. «Ma non bisogna dimenticare che l’inverno è prossimo, e che, con i grandi freddi, il legno è difficile da lavorare. Calcoliamo, dunque, alcune settimane d’inattività, e se il nostro bastimento sarà pronto per il prossimo novembre, dovremo ritenerci fortunatissimi.»
«Ebbene,» osservò Cyrus Smith «sarà appunto il momento propizio a una traversata di qualche importanza, sia fino all’isola di Tabor, sia fino ad altra terra più lontana.»
«È vero, signor Cyrus» disse il marinaio. «Fate, dunque, i vostri piani; gli operai sono pronti, e immagino poi che anche Ayrton potrà darci un buon aiuto in questa circostanza.»
I coloni, consultati, approvarono il progetto dell’ingegnere. Ed era il meglio che si potesse fare. La costruzione di un bastimento da duecento a trecento tonnellate era certamente una grande impresa, ma i coloni avevano in se stessi una fiducia giustificata dai numerosi successi già ottenuti.
Cyrus Smith s’occupò di tracciare il piano della nave e di determinare i garbi. Nel frattempo, i suoi compagni s’occuparono del taglio e del trasporto degli alberi, che dovevano servire per i braccioli, l’ossatura e il fasciame. La foresta del Far West diede le piante più adatte di quercia e d’olmo. I coloni approfittarono del piccolo sentiero già tracciato al tempo dell’ultima escursione per aprire una carrareccia, che prese il nome di strada del Far West, e gli alberi furono trasportati ai Camini, dove fu stabilito il cantiere. Quanto alla strada, era capricciosamente delineata, e fu un poco la scelta del legname che ne determinò il tracciato, rendendo anche più facile l’accesso a una notevole parte della penisola Serpentine.
Era necessario che quel legname fosse rapidamente tagliato e segato, giacché non si poteva adoperarlo verde e bisognava lasciare al tempo la cura di stagionarlo. I carpentieri lavorarono, dunque, con ardore durante il mese d’aprile, che fu turbato solo da alcuni colpi di vento d’equinozio abbastanza violenti. Mastro Jup aiutava efficacemente, sia che s’arrampicasse sulla cima degli alberi per fissarvi le corde con cui tirarli a terra, sia che prestasse le sue robuste spalle per trasportare i tronchi spogliati dei rami.
Tutto quel legname fu accatastato sotto una vasta tettoia di legno, che fu costruita vicino ai Camini, e ivi attese il momento d’essere messo in opera.
Il mese d’aprile fu abbastanza bello, com’è spesso il mese d’ottobre della zona boreale. Nello stesso tempo i lavori agricoli furono mandati avanti attivamente, e in breve ogni traccia di devastazione disparve dall’altipiano di Bellavista. Il mulino fu riedificato e nuove costruzioni sorsero sull’area della corte degli animali. Era parso opportuno di farle stavolta più ampie, giacché la popolazione pennuta aumentava in proporzioni considerevoli. Le stalle contenevano ora cinque onagri, di cui quattro vigorosi e bene addomesticati, che si lasciavano attaccare o montare, e uno piccolo, appena nato. Il materiale della colonia s’era accresciuto di un aratro e gli onagri venivano adibiti all’aratura, come veri e propri buoi dello Yorkshire o del Kentucky. I coloni si dividevano il lavoro e le braccia non si fermavano un momento. Che splendida salute godevano in tal modo i lavoratori e di che buon umore animavano le serate a GraniteHouse, facendo mille disegni per l’avvenire!
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