I compagni lo sostennero. Egli volle alzarsi, il suo desiderio fu assecondato e tutti si diressero verso il ruscelletto.
Era giorno fatto.
Là, sulla riva, nella posizione in cui li aveva colti la morte, che doveva essere stata fulminea, giacevano i cinque cadaveri dei deportati!
Ayrton era annichilito. Cyrus Smith e gli altri lo guardavano senza pronunciare una parola.
A un segno dell’ingegnere, Nab e Pencroff esaminarono quei corpi, già irrigiditi.
Apparentemente non portavano alcuna traccia di ferite.
Dopo averli accuratamente esaminati, Pencroff scoperse sulla fronte dell’uno, sul petto dell’altro, sulla schiena di questo, sulla spalla di quello, soltanto un puntino rosso, simile a una contusione appena visibile e di cui era impossibile stabilire l’origine.
«Lì sono stati colpiti!» disse Cyrus Smith.
«Ma con quale arma?» esclamò il cronista.
«Un’arma fulminante, di cui non abbiamo il segreto!»
«E chi li ha fulminati?…» domandò Pencroff.
«Il giustiziere dell’isola,» rispose Cyrus Smith «quello che vi ha trasportato qui, Ayrton, quello la cui influenza s’è testé ancora manifestata, quello che fa per noi tutto quanto noi non possiamo fare da soli e che, dopo aver agito, si nasconde.»
«Cerchiamolo, dunque!» gridò Pencroff.
«Sì, cerchiamolo,» rispose Cyrus Smith «ma l’essere superiore che compie simili prodigi non lo troveremo che quando gli piacerà di chiamarci finalmente a sé!»
Quella protezione, che annullava completamente la loro azione, irritava e commoveva insieme l’ingegnere. La relativa inferiorità, ch’essa metteva in evidenza, era di quelle da cui può sentirsi ferita un’anima fiera. Una generosità che opera in modo da eludere ogni senso di riconoscenza, denota una specie di disprezzo per i beneficati, e questo, agli occhi di Cyrus Smith, diminuiva in certo modo il valore del beneficio.
«Cerchiamo,» riprese «e Dio voglia che ci sia permesso un giorno di provare a questo altero protettore che non ha a che fare con degli ingrati! Che cosa non darei perché potessimo sdebitarci verso di lui, rendendogli a nostra volta, fosse pure a prezzo della nostra vita, qualche segnalato servigio!»
E da quel giorno, questa ricerca fu l’unica preoccupazione degli abitanti dell’isola di Lincoln. Tutto li incitava a scoprire la chiave di quell’enigma, chiave che non poteva essere che il nome di un uomo dotato d’una potenza veramente inesplicabile e in certo qual modo sovrumana.
Dopo alcuni istanti, i coloni rientrarono nell’abitazione del recinto, ove le loro cure ridonarono rapidamente ad Ayrton l’energia fisica e morale.
Nab e Pencroff trasportarono i cadaveri dei deportati nella foresta, a qualche distanza dal recinto e li sotterrarono profondamente.
Ayrton fu poi messo al corrente dei fatti verificatisi durante il suo sequestro. Seppe allora l’avventura di Harbert e conobbe attraverso quali lunghe prove i coloni erano passati. Essi, poi, non speravano più di rivedere Ayrton e temevano che i deportati l’avessero inesorabilmente massacrato.
«E adesso,» disse Cyrus Smith terminando il suo racconto «ci rimane un dovere da compiere. La metà del nostro compito è adempiuta, ma se i pirati non possono più nuocere, non a noi dobbiamo la riconquista assoluta dell’isola.»
«Ebbene!» esclamò Gedeon Spilett «frughiamo tutto il labirinto dei contrafforti del monte Franklin! Non lasciamo una sola caverna, non un buco inesplorati. Ah, se mai un giornalista si è trovato in presenza di un mistero emozionante, quel giornalista sono proprio io, amici, che vi parlo.»
«E non ritorneremo a GraniteHouse» rispose Harbert «che quando avremo trovato il nostro benefattore.»
«Sì,» disse l’ingegnere «faremo tutto quello che è umanamente possibile… ma, ripeto, non lo troveremo se non quando egli ce lo permetterà!»
«Restiamo al recinto?» chiese Pencroff.
«Restiamoci» rispose Cyrus Smith. «Le provviste sono abbondanti e qui siamo proprio nel centro del nostro campo d’investigazione. Del resto, se sarà necessario, il carro potrà sempre recarsi rapidamente a GraniteHouse.»
«Bene!» rispose il marinaio. «Solamente, una osservazione.»
«Quale?»
«La bella stagione s’avanza e non bisogna dimenticare che abbiamo da fare una traversata.»
«Una traversata?» disse Gedeon Spilett.
«Sì, quella all’isola di Tabor» rispose Pencroff. «È necessario portarvi un messaggio, che indichi la posizione della nostra isola, dove si trova attualmente Ayrton, per il caso in cui lo yacht scozzese venisse a riprenderlo. Chi sa che non sia già troppo tardi?»
«Ma, Pencroff,» chiese Ayrton «come contate di fare questa traversata?»
«Sul Bonadventurel»
«Il Bonadventurel» esclamò Ayrton… «Ma non esiste più!»
«Il mio Bonadventure non esiste più?» urlò Pencroff, sobbalzando.
«No!» rispose Ayrton. «I deportati l’hanno scoperto nel suo piccolo porto appena otto giorni fa, e…»
«E?» fece Pencroff, il cui cuore palpitava.
«E, non avendo più Bob Harvey per manovrare, si sono incagliati sugli scogli e l’imbarcazione è stata completamente sfasciata!»
«Ah, i miserabili! I banditi! Gli infami!» esclamò Pencroff.
«Pencroff,» disse Harbert, prendendo la mano del marinaio «noi costruiremo un altro Bonadventure, e ben più grande! Abbiamo tutte le parti in ferro, tutta l’attrezzatura del brigantino a nostra disposizione!»
«Ma sapete,» rispose Pencroff «che occorrono almeno cinque o sei mesi per costruire un’imbarcazione di trenta o quaranta tonnellate?»
«Impiegheremo il tempo necessario» rispose il giornalista «e rinunceremo per quest’anno a fare la traversata all’isola di Tabor.»
«Che volete, Pencroff? Bisogna rassegnarsi» disse l’ingegnere. «Speriamo che questo ritardo non ci sia dannoso.»
«Ah, il mio Bonadventurel Il mio povero Bonadventurel» esclamò Pencroff, veramente costernato per la perdita della sua imbarcazione, di cui era fiero.
La distruzione del Bonadventure era stata senza dubbio un fatto deplorevole per i coloni e venne quindi stabilito che quella perdita sarebbe stata riparata al più presto. Fissato questo punto, non si occuparono d’altro che di condurre a buon fine l’esplorazione delle più recondite parti dell’isola.
Le prime ricerche iniziarono il giorno stesso, 19 febbraio, e durarono una intera settimana. La base della montagna, tra i suoi contrafforti e le loro numerose ramificazioni, formava un labirinto di vallate e di controvallate, disposto molto capricciosamente. Evidentemente, là, in fondo a quelle strette gole, fors’anche nell’interno del monte Franklin, conveniva proseguire le ricerche. Nessun’altra parte dell’isola sarebbe stata più adatta a celare un rifugio, il cui ospite volesse rimanere incognito. Ma i contrafforti erano talmente intricati, che Cyrus Smith dovette procedere alla loro esplorazione metodicamente.
I coloni visitarono dapprima tutta la vallata, che si apriva a sud del vulcano e che raccoglieva le prime acque del fiume della Cascata. Là Ayrton mostrò loro la caverna ove s’erano rifugiati i deportati e nella quale egli era stato sequestrato fino al momento del suo trasporto al recinto. Quella caverna era nell’identico stato in cui Ayrton l’aveva lasciata. Vi si trovava ancora una certa quantità di munizioni e di viveri, che i deportati avevano sottratto dalle provviste del recinto, con l’intenzione di crearsi una riserva.
Tutta la vallata che terminava con la grotta, vallata ombreggiata da grandi alberi, fra cui dominavano le conifere, fu esplorata con estrema cura e avendo girato la punta del contrafforte di sudovest, i coloni si cacciarono in una gola più stretta che s’apriva in quell’ammasso tanto pittoresco dei basalti del lido.
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