Jules Verne - L’Isola Misteriosa

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L’Isola Misteriosa: краткое содержание, описание и аннотация

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Questo straordinario romanzo presenta non poche analogie con Robinson Crusoe, dello scrittore inglese Defoe, di cui Verne era un grande ammiratore. Anche qui, la situazione è press’a poco la stessa: alcuni naufraghi approdano fortunosamente su un’isola deserta e lottano disperatamente per sopravvivere. Ma se Robinson, di fronte alla natura selvaggia, incarnava l’uomo del ‘700, che si industria come può, ricorrendo ai piccoli espedienti suggeritigli dalla ragione, senza altri strumenti che le proprie mani, i cinque naufraghi protagonisti di questo libro incarnano la nuova idea dell’uomo «scientifico» qual era concepito nella seconda metà dell’800, l’uomo che domina ormai la natura in virtù di una tecnologia progredita che gli permette di trasformare rapidamente un’isola selvaggia in una colonia civile. Non a caso Robinson è un uomo comune, un marinaio, ed è solo, a lottare contro le forze cieche della natura, mentre qui siamo dì fronte a una vera e propria équipe, composta da persone di estrazione e di competenze diverse, ma guidata da un ingegnere e scienziato, Cyrus Smith…

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S’intende che Ayrton partecipava in tutto all’esistenza comune e non si parlava più di farlo vivere al recinto. Tuttavia, egli era sempre triste e poco espansivo, e s’univa piuttosto ai lavori che ai passatempi dei suoi compagni. Ma sul lavoro era un rude operaio, vigoroso, accorto, ingegnoso, intelligente. Era stimato e amato da tutti, ed egli lo sapeva.

Il recinto non fu abbandonato. Ogni due giorni uno dei coloni, conducendo il carro o montando uno degli onagri, andava a curare il gregge dei mufloni e delle capre e ritornava con il latte, che serviva a rifornire la dispensa di Nab. Quelle escursioni erano, nello stesso tempo, occasioni di caccia. Così Harbert e Gedeon Spilett, preceduti da Top, correvano più spesso dei loro compagni sulla strada del recinto e con le armi eccellenti di cui disponevano, capibara, aguti, cinghiali, porci selvatici per la; grossa selvaggina di pelo, e anatre, tetraoni, galli cedroni, jacamar, beccaccini per la piccola selvaggina di piuma, non mancavano mai in casa. I prodotti della conigliera, quelli del banco di ostriche, alcune testuggini, che furono prese, una nuova pesca di quegli eccellenti salmoni, che ancora una volta penetrarono nelle acque del Mercy, gli ortaggi dell’altipiano di Bellavista, i frutti naturali della foresta, erano ricchezze inestimabili, e Nab, il capocuoco, bastava appena a immagazzinarle.

È sottinteso che il filo telegrafico teso fra il recinto e GraniteHouse era stato riparato e funzionava quando l’uno o l’altro dei coloni si trovava al recinto e stimava necessario passarvi la notte. D’altronde, ormai, l’isola era sicura e nessuna aggressione era da temere, almeno da parte degli uomini.

Tuttavia, quant’era avvenuto poteva ripetersi. Uno sbarco di pirati, oppure di deportati evasi era sempre probabile. Poteva darsi che dei compagni, dei complici di Bob Harvey, ancora detenuti a Norfolk, fossero a parte dei suoi progetti e avessero la tentazione di imitarlo. I coloni non mancavano quindi mai di vigilare gli approdi dell’isola e ogni giorno il loro cannocchiale esplorava il largo orizzonte, che chiudeva la baia dell’Unione e la baia di Washington. Quando andavano al recinto, esaminavano non meno attentamente la parte ovest del mare e, salendo poi sul contrafforte, il loro sguardo poteva percorrere un largo settore dell’orizzonte occidentale.

Niente appariva di sospetto, ma bisognava star sempre in guardia egualmente.

L’ingegnere una sera partecipò ai suoi amici l’idea da lui concepita di fortificare il recinto. Gli pareva prudente alzarne la palizzata e proteggerla con una specie di fortino nel quale, all’occorrenza, i coloni avrebbero potuto resistere a un numeroso stuolo di nemici. Infatti, dovendo GraniteHouse essere considerata inespugnabile per sua stessa posizione, il recinto, con le sue costruzioni, le provviste varie, con gli animali che accoglieva, sarebbe sempre stato l’obiettivo d’ogni specie di pirati, che fossero riusciti a sbarcare nell’isola, e quindi, se i coloni fossero stati costretti ad asserragliarvisi, bisognava che potessero resistere con il minor danno possibile.

Era un progetto da far maturare, e la sua esecuzione, del resto, dovette essere per forza rimandata alla primavera successiva.

Verso il 15 di maggio, la chiglia del nuovo bastimento s’allungava già nel cantiere e poco dopo la ruota di prua e il dritto di poppa, uniti ad incastro a ciascuna delle sue estremità, vi si drizzarono quasi perpendicolarmente. La chiglia, in buona quercia, misurava centodieci piedi di lunghezza, e questo avrebbe consentito di dare al baglio maestro una larghezza di venticinque piedi. Ma fu tutto quanto i carpentieri poterono fare prima dell’arrivo del freddo e del cattivo tempo. Nella settimana seguente furono ancora collocati i primi quinti di poppa; poi, si dovettero sospendere i lavori.

Negli ultimi giorni del mese il tempo fu estremamente cattivo. Il vento soffiava da est e talvolta con la violenza di un uragano. L’ingegnere ebbe qualche inquietudine per le tettoie del cantiere, che, d’altra parte, non avrebbe potuto essere costruito in alcun altro punto prossimo a GraniteHouse, perché l’isolotto non proteggeva che imperfettamente il litorale dalla furia dell’alto mare, e durante le grandi tempeste i frangenti arrivavano contro la base della muraglia granitica.

Ma, per fortuna, questi timori si rivelarono vani. Il vento soffiò piuttosto da sudest e, in queste condizioni, la spiaggia di GraniteHouse si trovava completamente riparata dalla sporgenza formata dalla punta del Relitto.

Pencroff e Ayrton, i due più zelanti costruttori del nuovo bastimento, proseguirono i lavori più a lungo che poterono. Non erano affatto imbarazzati per il vento che arruffava loro la capigliatura, né per la pioggia che li inzuppava fino alle ossa, e una martellata è utile con il brutto quanto con il bel tempo. Ma quando un freddo acutissimo successe a quel periodo di umidità, il legno, acquistando nelle fibre la durezza del ferro, divenne estremamente difficile da lavorare e, verso il 10 giugno, bisognò abbandonare definitivamente la costruzione dell’imbarcazione.

A Cyrus Smith e ai suoi compagni non era passato inosservato il rigore della temperatura degli inverni dell’isola di Lincoln. Il freddo era paragonabile a quello che colpisce gli Stati della Nuova Inghilterra, situati press’a poco alla stessa distanza dall’Equatore. Se nell’emisfero boreale o per lo meno nella parte occupata dalla Nuova Bretagna e dal nord degli Stati Uniti, questo fenomeno si piega mediante la conformazione piatta di territori confinanti con il polo e sui quali nessuna elevazione del suolo ostacola i gelidi venti iperborei, per l’isola di Lincoln questa spiegazione non poteva valere.

«È stato anche osservato,» diceva un giorno Cyrus Smith ai suoi compagni «che, sebbene a uguali latitudini, le isole e le regioni del litorale sono meno provate dal freddo che le contrade mediterranee. Ho spesso sentito affermare che gli inverni di Lombardia, per esempio, sono più rigidi di quelli della Scozia, e questo starebbe a dimostrare che il mare restituisce durante l’inverno il calore ricevuto durante l’estate. Le isole sono, dunque, nelle migliori condizioni per beneficiare di questa restituzione.»

«Ma allora, signor Cyrus,» chiese Harbert «perché l’isola di Lincoln sembra sfuggire alla legge comune?»

«È difficile da spiegare» rispose l’ingegnere. «Tuttavia, sarei disposto ad ammettere che questa singolarità dipenda dalla posizione dell’isola nell’emisfero australe, il quale, come tu sai, figlio mio, è più freddo dell’emisfero boreale.»

«Infatti,» disse Harbert «i ghiacci galleggianti s’incontrano in latitudini più basse nel sud che nel nord del Pacifico.»

«È vero,» rispose Pencroff «e quando facevo, il baleniere, ho veduto degli icebergs persino all’altezza di capo Horn.»

«Allora si potrebbe spiegare il freddo intenso che domina l’isola di Lincoln con la presenza di ghiacci o di banchise a una distanza relativamente piccola» disse Gedeon Spilett.

«La vostra opinione è davvero molto ammissibile, mio caro Spilett» rispose Cyrus Smith; «evidentemente, il rigore dei nostri inverni è dovuto alla prossimità della banchisa. Vi farò, inoltre, osservare che una causa tutta fisica rende l’emisfero australe più freddo dell’emisfero boreale. Infatti, essendo il sole più vicino all’emisfero australe durante l’estate, ne è necessariamente più lontano d’inverno. Questo porta a un eccesso di temperatura nei due sensi; infatti, se troviamo freddissimi gli inverni dell’isola di Lincoln, non dobbiamo dimenticare che le estati, invece, vi sono caldissime.»

«Ma perché dunque, per favore, signor Smith,» domandò Pencroff, aggrottando le sopracciglia «perché, dunque, il nostro emisfero, come voi dite, è trattato così male? Non è giusto!»

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