E bisognava convenire che il ragionamento del marinaio non mancava di una certa logica.
Verso l’una e mezzo i coloni s’imbarcarono nella piroga e si recarono sul luogo del disastro. Era deplorevole che le due imbarcazioni del brigantino non avessero potuto essere ricuperate. Una, com’è noto, s’era fracassata alla foce del Mercy ed era assolutamente fuori uso; l’altra era sparita con il brigantino, e schiacciata indubbiamente dal medesimo, non era più riapparsa.
Intanto, lo scafo dello Speedy cominciava a mostrarsi al di sopra della linea d’acqua. Il brigantino era talmente inclinato sul fianco, che, dopo aver rotto gli alberi sotto il peso della zavorra spostata dalla caduta, si trovava quasi con la chiglia in aria. Era stato veramente capovolto dall’inesplicabile, ma spaventosa azione sottomarina, che s’era nello stesso tempo manifestata con un’enorme tromba d’acqua.
I coloni fecero il giro dello scafo, e via via che la marea calava, poterono conoscere, se non la causa che aveva provocato la catastrofe, per lo meno l’effetto prodotto.
A prua, ai due lati della chiglia, da sette ad otto piedi prima della ruota di prua, i fianchi del brigantino erano spaventevolmente squarciati per una lunghezza di venti piedi almeno. S’aprivano colà due larghe falle che sarebbe stato impossibile turare. Non solo la fodera di rame e il fasciame erano scomparsi, ridotti senza dubbio in polvere, ma persino dell’ossatura della nave, della chiodatura e delle caviglie di legno che la tenevano insieme non v’era più traccia. Lungo tutto lo scafo, sino alle forme di poppa, i corsi disgiunti non tenevano più. La falsa chiglia era stata divelta con violenza inesplicabile, e la chiglia stessa, strappata dal paramezzale in parecchi punti, era rotta in tutta la sua lunghezza.
«Per mille diavoli!» esclamò Pencroff. «Ecco una nave che sarà difficile rimettere a galla.»
«Dite impossibile» osservò Ayrton.
«In ogni caso,» fece osservare a sua volta Gedeon Spilett al marinaio «l’esplosione, se esplosione c’è stata, ha prodotto degli strani effetti. Ha provocato lo squarcio dello scafo nelle sue parti inferiori, invece di far saltare il ponte e l’opera morta! Queste larghe. aperture sembra siano state fatte piuttosto dall’urto di uno scoglio, che dall’esplosione di un deposito di polvere!»
«Non ci sono scogli nel canale!» replicò il marinaio. «Ammetto tutto quello che volete, eccetto l’urto contro una secca.»
«Cerchiamo di penetrare nell’interno del brigantino» disse l’ingegnere. «Forse sapremo che cosa pensare circa la causa della sua distruzione.»
Era la miglior decisione da prendere e, del resto, conveniva inventariare tutte le ricchezze contenute a bordo e disporre per il loro ricupero.
L’accesso nell’interno del brigantino era facile. La marea scendeva sempre e il disotto del ponte, divenuto ora il disopra per il rovesciamento dello scafo, era praticabile. La zavorra, composta di pesanti pani di ghisa, l’aveva sfondato in più punti. Si sentiva il mare rumoreggiare, passando per le fessure dello scafo.
Cyrus Smith e i suoi compagni, con l’ascia in mano, avanzarono sul ponte molto danneggiato. Casse d’ogni sorta lo ingombravano e siccome erano rimaste in acqua solo per un tempo limitato, il loro contenuto, probabilmente, non era avariato.
I coloni s’occuparono dunque di mettere tutto quel carico in un posto sicuro. L’acqua non sarebbe risalita che entro alcune ore, che furono utilizzate nel modo più profittevole. Ayrton e Pencroff avevano fissato, ad un’apertura praticata nello scafo, un paranco che serviva ad alare i barili e le casse. La piroga riceveva il materiale e lo trasportava immediatamente sulla spiaggia. Si raccoglieva tutto indistintamente, salvo fare più tardi una cernita degli oggetti ricuperati.
In ogni caso, i coloni poterono subito constatare, con viva soddisfazione, che il brigantino possedeva un carico molto svariato, un assortimento d’articoli di tutte le specie: utensili, manufatti, strumenti, il carico, cioè, dei bastimenti che fanno il grande cabotaggio della Polinesia. Forse i coloni avrebbero trovato un po’ di tutto, e bisognava convenire ch’era appunto quello che loro occorreva.
Tuttavia, e Cyrus Smith l’osservava con tacita meraviglia, non solo lo scafo del brigantino, come s’è detto, aveva sofferto enormemente per l’urto, qualunque fosse la sua origine, che aveva determinato la catastrofe, ma tutta la struttura interna era devastata, specialmente verso prua. Paratie e puntelli erano schiantati, come se qualche formidabile granata fosse scoppiata nell’interno del brigantino. I coloni poterono portarsi facilmente da prua a poppa, dopo aver rimosso le casse che venivano estratte a poco a poco. Non erano pesanti, né difficili a rimuoversi, ma semplici colli, il cui stivaggio era reso irriconoscibile.
I coloni giunsero sino a poppa del brigantino, nella parte, un tempo, sormontata dal casseretto. Secondo l’indicazione di Ayrton qui bisognava cercare la cala della polvere. Poiché Cyrus Smith pensava ch’essa non fosse esplosa, era possibile che alcuni barili potessero essere recuperati e che la polvere, ordinariamente contenuta in involucri metallici, non avesse sofferto al contatto dell’acqua.
Così era, infatti. In mezzo a una grande quantità di proiettili, i coloni trovarono una ventina di barili, internamente foderati di rame, che furono estratti con precauzione. Pencroff si convinse con i suoi propri occhi che la distruzione dello Speedy non poteva essere attribuita a un’esplosione. La parte dello scafo in cui si trovava la cala della polvere era precisamente quella che aveva sofferto meno.
«Possibile!» esclamò l’ostinato marinaio; «eppure, non può trattarsi di uno scoglio: nel canale non ci sono scogli!»
«Ma, allora, che cosa è accaduto?» chiese Harbert.
«Io, non ne so niente» rispose Pencroff; «il signor Cyrus non ne sa niente e nessuno sa, né saprà mai nulla.»
In quelle diverse ricerche erano trascorse parecchie ore e il flusso cominciava già a farsi sentire di nuovo. Bisognò sospendere i lavori di ricupero. Del resto, non c’era da temere che la carcassa del brigantino venisse portata via dal mare, giacché era già affondata nella sabbia del fondo e così solidamente piantata, come fosse ancorata.
Si poteva, dunque, senza inconvenienti, aspettare il prossimo riflusso per riprendere le operazioni. Ma il bastimento era proprio condannato e sarebbe anzi stato necessario affrettarsi a recuperare i resti dello scafo, giacché non avrebbero tardato a scomparire nelle sabbie mobili del canale.
Erano le cinque della sera. La giornata era stata dura per i lavoratori. Mangiarono con grande appetito e, per quanto stanchissimi, dopo il pasto non resistettero al desiderio di visitare le casse, di cui si componeva il carico dello Speedy.
La maggior parte di esse conteneva vestiti confezionati, i quali, come si può immaginare, furono bene accolti. C’era di che vestire un’intera colonia: biancheria per tutti gli usi, calzature per tutti i piedi.
«Eccoci fin troppo ricchi!» esclamava Pencroff. «Ma come utilizzeremo questa roba?»
E a ogni momento l’allegro marinaio prorompeva in evviva, via via che trovava barili di tafia, barili di tabacco, armi da fuoco, armi bianche, balle di cotone, strumenti agricoli, utensili da carpentiere, da falegname, da fabbro, casse di sementi d’ogni specie, che la breve permanenza in acqua non aveva danneggiato. Ah, come tutte quelle cose sarebbero venute a proposito due anni prima! Ma, insomma, anche allora, sebbene gli industriosi coloni si fossero già provveduti di utensili, quelle ricchezze avrebbero trovato il loro impiego.
Lo spazio ove collocarle non mancava nei magazzini di GraniteHouse; ma in quel giorno non si poté immagazzinare tutto, per mancanza di tempo. Non bisognava, poi, dimenticare che sei superstiti dell’equipaggio dello Speedy avevano posto piede nell’isola, che probabilmente erano dei furfanti di prim’ordine e che bisognava, quindi, stare in guardia. Benché il ponte del Mercy e i ponticelli fossero alzati, quei detenuti non erano uomini da essere imbarazzati per un fiume o un ruscello e, spinti dalla disperazione, manigoldi simili potevano essere temibili.
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