«Amici miei, credo di dover richiamare la vostra attenzione su certi fatti accaduti nell’isola, in merito ai quali sarei lietissimo di conoscere la vostra opinione. Questi fatti sono, per così dire, soprannaturali…»
«Soprannaturali» esclamò il marinaio, lanciando una boccata di fumo. «Potrebbe darsi che la nostra isola fosse soprannaturale?»
«No, Pencroff, ma misteriosa certamente,» rispose l’ingegnere «a meno che voi non possiate spiegarci quello che Spilett e io non abbiamo ancora potuto comprendere.»
«Parlate, signor Cyrus» fece il marinaio.
«Orbene! Avete capito,» disse allora l’ingegnere «come abbia potuto avvenire che, dopo esser caduto in mare, io sia stato ritrovato a un quarto di miglio nell’interno dell’isola, e questo senza ch’io abbia avuto coscienza dello spostamento?»
«Forse, essendo svenuto…» disse Pencroff.
«Non è possibile» rispose l’ingegnere. «Ma proseguiamo. Avete compreso come Top abbia potuto scoprire il vostro rifugio, a cinque miglia dalla grotta ove giacevo?»
«L’istinto del cane…» rispose Harbert.
«Singolare istinto!» fece notare il cronista «poiché, malgrado la pioggia e il vento che infuriavano in quella notte, Top arrivò ai Camini asciutto e senza macchie di fango.»
«Continuiamo» riprese l’ingegnere. «Siete riusciti a comprendere come mai il nostro cane sia stato stranamente gettato fuori dalle acque del lago, dopo la sua lotta con il dugongo?»
«No! non l’ho compreso troppo, lo confesso,» rispose Pencroff «e la ferita che il dugongo aveva al fianco e che sembrava fatta con uno strumento tagliente, è altrettanto incomprensibile.»
«Proseguiamo ancora» riprese Cyrus Smith. «Vi siete spiegato, amici, come abbia potuto trovarsi nel corpo del giovane pecari il pallino di piombo? Come la cassa si sia tanto facilmente arenata, senza traccia di naufragio? Come la bottiglia contenente il documento si sia presentata tanto opportunamente in occasione della nostra prima escursione in mare? Come il nostro canotto, che aveva rotto l’ormeggio, sia venuto, seguendo la corrente del Mercy, a raggiungerci proprio nel momento in cui ne avevamo bisogno? Come, dopo l’invasione delle scimmie, la scala ci sia stata calata di nuovo e così a proposito dall’alto di GraniteHouse? Come, infine, il documento che Ayrton pretende di non aver mai scritto sia caduto nelle nostre mani?»
Cyrus Smith aveva enumerato, senza dimenticarne nemmeno uno, i fatti strani verificatisi nell’isola. Harbert, Pencroff e Nab si guardarono, non sapendo che cosa rispondere, perché quella serie di avvenimenti considerati per la prima volta nel loro insieme, non poté non meravigliarli estremamente.
«In fede mia,» disse alla fine Pencroff «avete ragione, signor Cyrus; è difficile spiegare queste cose!»
«Ebbene, amici,» proseguì l’ingegnere «un ultimo fatto è venuto ad aggiungersi a quelli fin qui elencati, e non meno incomprensibile degli altri!»
«Quale, signor Cyrus?» chiese vivamente Harbert.
«Quando siete ritornati dall’isola di Tabor, voi, Pencroff» riprese l’ingegnere «affermate che un fuoco vi è apparso sull’isola di Lincoln, vero?»
«Certamente» rispose il marinaio.
«E siete ben certo di averlo veduto questo fuoco?»
«Come vedo voi.»
«Anche tu, Harbert?»
«Ah, signor Cyrus,» esclamò Harbert «quel fuoco brillava come una stella di prima grandezza!»
«Ma non era una stella?» ripete l’ingegnere con insistenza.
«No,» rispose Pencroff «perché il cielo era coperto da grosse nubi, e perché una stella, in ogni caso, non sarebbe stata così bassa sull’orizzonte. Ma il signor Spilett l’ha veduta come noi e può confermare le nostre parole!»
«Aggiungerò,» disse il giornalista «che quel fuoco era molto vivo e che proiettava come un largo alone elettrico.»
«Sì, sì! Proprio così» rispose Harbert «ed era certamente piazzato sulle alture di GraniteHouse.»
«Orbene, amici,» rispose Cyrus Smith «durante la notte dal 19 al 20 ottobre né Nab né io abbiamo acceso un fuoco sulla costa.»
«Voi non avete?…» esclamò Pencroff, al colmo della meraviglia; e non poté nemmeno finire la frase.
«Noi non abbiamo lasciato GraniteHouse,» riprese Cyrus Smith «e se un fuoco è apparso sulla costa, un’altra mano l’ha acceso, non la nostra!»
Pencroff, Harbert e Spilett erano sbalorditi! Non era possibile che si fosse trattato di un’illusione, ma era un vero e proprio fuoco, che i loro occhi avevano visto durante la notte dal 19 al 20 ottobre!
Sì! Dovettero convenirne: un mistero esisteva! Un’influenza inesplicabile, evidentemente favorevole ai coloni, ma molto irritante per la loro curiosità, si faceva sentire a tempo opportuno sull’isola di Lincoln. C’era, dunque, qualche essere nascosto nelle sue più profonde cavità? Bisognava saperlo a ogni costo!
Cyrus Smith ricordò inoltre ai compagni il curioso atteggiamento di Top e di Jup quando s’aggiravano attorno alla bocca del pozzo, che metteva GraniteHouse in comunicazione con il mare, e disse loro che aveva esplorato quel pozzo, senza scoprirvi nulla di sospetto. Infine, la conclusione fu che tutti i membri della colonia avrebbero perlustrato l’intera isola, appena fosse ritornata la bella stagione.
Ma da quel giorno Pencroff parve preoccupato. Gli sembrava che l’isola di Lincoln, da lui considerata come proprietà sua personale, non gli appartenesse più tutt’intera, ma la dovesse dividere con un altro padrone, al quale, per amore o per forza, si sentiva sottomesso. Nab e lui parlavano spesso di quelle cose inesplicabili, ed entrambi, molto inclini alle fantasticherie, per la loro stessa natura, non erano lungi dal credere che l’isola di Lincoln fosse soggetta a qualche potere soprannaturale.
Intanto, il cattivo tempo era incominciato con il mese di maggio (il novembre delle zone boreali). L’inverno si annunciava crudo e precoce; perciò i lavori per le necessità dell’invernata furono iniziati senza indugio.
Del resto, i coloni erano ben preparati ad accogliere l’inverno, per inclemente che fosse. I vestiti di feltro non mancavano, perché i mufloni, ormai numerosi, avevano abbondantemente provvisto la lana necessaria alla fabbricazione di quella stoffa così calda.
Naturalmente, anche Ayrton era stato munito di quei confortevoli indumenti. Cyrus Smith gli offri di andare a passare la cattiva stagione a GraniteHouse, ove sarebbe stato alloggiato meglio che al recinto, e Ayrton promise di farlo, appena avesse terminato gli ultimi lavori. Egli, infatti, prese dimora a GraniteHouse verso la metà d’aprile. Da allora in poi condivise la vita comune, rendendosi utile in ogni occasione; ma, sempre umile e triste, non prendeva mai parte agli svaghi dei suoi compagni.
I coloni passarono la maggior parte di quell’inverno, il terzo che trascorrevano nell’isola di Lincoln, confinati in GraniteHouse. Vi furono furiose tempeste e terribili burrasche, che sembravano scuotere le rocce fin dalle fondamenta. Violentissime ondate minacciarono di coprire l’isola, e certo, qualunque nave all’ormeggio sarebbe andata perduta. Due volte, durante una di quelle bufere, il Mercy ingrossò al punto da far temere che i ponti e i ponticelli venissero travolti dalla corrente. Bisognò anche consolidare quelli del greto, che sparivano sotto le onde, quando il mare batteva il litorale.
Tremendi remolini, simili a trombe, ove si mescolavano pioggia e neve, causarono danni all’altipiano di Bellavista. Il mulino e il pollaio ne soffrirono particolarmente. I coloni dovettero spesso operarvi riparazioni urgenti, senza di che l’esistenza dei volatili sarebbe stata seriamente minacciata.
Durante quelle grandi intemperie, alcune coppie di giaguari e bande di quadrumani s’avventurarono sino all’altipiano, e c’era sempre da temere che i più agili e i più audaci, spinti dalla fame, riuscissero a varcare il ruscello, il quale, d’altronde, quand’era gelato, offriva loro un passaggio facile. Piantagioni e animali domestici sarebbero stati infallibilmente perduti senza una continua sorveglianza, e spesso fu necessario sparare per tenere a rispettosa distanza quei pericolosi visitatori. Così il lavoro non mancò ai coloni, poiché, oltre alle cure esterne, c’erano sempre mille cose da fare a GraniteHouse.
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