«Che sia il Duncan!» esclamò.
Com’è noto, il Duncan era lo yacht di lord Glenarvan, che aveva abbandonato Ayrton sull’isolotto e che doveva un giorno tornare a riprenderlo. Ora, l’isolotto non si trovava a tale distanza dall’isola di Lincoln, che un bastimento, facendo rotta per quello, non potesse passare in vista di questa. Centocinquanta miglia soltanto li separavano in longitudine e settantacinque miglia in latitudine.
«Bisogna avvertire Ayrton,» disse Gedeon Spilett «e mandarlo a chiamare immediatamente. Egli solo può dirci se si tratta del Duncan.»
Tutti furono d’accordo e il giornalista, andando all’apparecchio telegrafico, che metteva in comunicazione il recinto con GraniteHouse, lanciò questo telegramma:
«Venite immediatamente».
Pochi istanti dopo il campanello suonava.
«Vengo» rispondeva Ayrton.
I coloni continuarono poi a osservare la nave.
«Se è il Duncan,» disse Harbert «Ayrton lo riconoscerà facilmente, poiché vi è stato a bordo per qualche tempo.»
«E riconoscendolo» soggiunse Pencroff «ne proverà una straordinaria emozione!»
«Sì» rispose Cyrus Smith. «Ma ora Ayrton è degno di risalire a bordo del Duncan; voglia il Cielo che sia davvero lo yacht di lord Glenarvan, perché ogni altra nave mi sembrerebbe sospetta! Questi mari sono mal frequentati e temo sempre per la nostra isola la visita dei pirati malesi.»
«Ma noi la difenderemo!» esclamò Harbert.
«Indubbiamente, ragazzo mio» rispose l’ingegnere sorridendo; «ma è meglio non aver bisogno di difenderla.»
«Una semplice osservazione» disse Gedeon Spilett. «L’isola di Lincoln non è conosciuta dai naviganti, perché non è indicata nemmeno sulle carte più recenti. Non credete, Cyrus, che sia questo un motivo perché un bastimento, trovandosi inopinatamente in vista di una terra nuova, cerchi di visitarla, anziché allontanarsene?»
«Certo» rispose Pencroff.
«Anch’io lo penso» soggiunse l’ingegnere. «Si può, anzi, affermare ch’è dovere di ogni capitano segnalare e per conseguenza prender conoscenza di ogni terra o isola non ancora catalogata; questo è appunto il caso dell’isola di Lincoln.»
«Ebbene,» disse allora Pencroff «ammettiamo che quel bastimento prenda terra, che dia fondo, a qualche gomena dalla nostra isola; che cosa faremo?»
Il quesito, posto così bruscamente, rimase dapprima senza risposta. Ma Cyrus Smith, dopo aver riflettuto, rispose con il tono calmo che gli era abituale:
«Ecco quello che faremo, amici miei, quello che dovremo fare: prenderemo contatto col bastimento, ci imbarcheremo su di esso e lasceremo la nostra isola, dopo averne preso possesso nel nome degli Stati dell’Unione. Poi vi torneremo con tutti coloro che vorranno seguirci, per colonizzarla definitivamente e dotare la Repubblica Americana d’uno scalo utile in questa parte dell’Oceano Pacifico!»
«Evviva!» gridò Pencroff «e non sarà un piccolo regalo, che faremo al nostro Paese! La colonizzazione è già quasi compiuta, i nomi sono dati a tutte le parti dell’isola, c’è un porto naturale, un punto di acquata, vi sono strade, una linea telegrafica, un cantiere, un’officina, e non rimarrà altro da fare che iscrivere il nome dell’isola di Lincoln sulle carte!»
«Ma se ce la prendono durante la nostra assenza?» osservò Gedeon Spilett.
«Per mille diavoli!» esclamò il marinaio «piuttosto resterei io solo a custodirla, e, quant’è vero che sono Pencroff, non me la ruberebbero certo come si ruba un orologio di tasca a un balordo; state pure tranquilli!»
Per un’ora ancora fu impossibile dire con sicurezza se il bastimento segnalato facesse o non facesse rotta verso l’isola di Lincoln. S’era avvicinato, tuttavia, ma a quale velocità navigava? Pencroff non riuscì a stabilirlo. Nondimeno, siccome il vento soffiava da nordest era verosimile che navigasse con le mure a dritta. D’altronde il vento era favorevole per spingerlo verso gli approdi dell’isola e, con quella calma, non poteva. temere di avvicinarsi, benché i fondali non fossero riportati sulla carta.
Verso le quattro, un’ora dopo la chiamata, Ayrton arrivò a GraniteHouse. Entrò nel salone, dicendo:
«Ai vostri ordini, signori.»
Cyrus Smith gli porse la mano, come faceva di solito, e conducendolo presso la finestra:
«Ayrton,» gli disse «vi abbiamo pregato di venire per un motivo grave. Un bastimento è in vista dell’isola.»
Ayrton, a tutta prima, impallidì leggermente e il suo sguardo si turbò per un istante. Poi, sporgendosi dalla finestra, percorse l’orizzonte con lo sguardo, ma non vide nulla.
«Prendete questo cannocchiale,» disse Gedeon Spilett «e guardate bene, Ayrton; perché potrebbe darsi che quella nave fosse il Duncan, venuto in questi mari per rimpatriarvi.»
«Il Duncan!» mormorò Ayrton. «Già!»
Quest’ultima parola sfuggì quasi involontariamente dalle labbra di Ayrton, che chinò la testa fra le mani.
Dodici anni di abbandono su di un isolotto deserto non gli parevano, dunque, un’espiazione sufficiente? Il colpevole punito non si sentiva, dunque, ancora perdonato, di fronte a se stesso, e di fronte agli altri?
«No,» disse «no! Non può essere il Duncan.»
«Guardate, Ayrton,» disse allora l’ingegnere «perché è necessario che noi sappiamo fin d’ora a che partito appigliarci.»
Ayrton prese il cannocchiale e lo puntò nella direzione indicata. Per alcuni minuti osservò l’orizzonte senza muoversi, senza pronunciare una parola. Poi:
«Infatti, è una nave,» disse «ma non credo che sia il Duncan.»
«Perché mai non dovrebbe essere il Duncan?» domandò allora Gedeon Spilett.
«Perché il Duncan è uno yacht a vapore, mentre non scorgo nessuna traccia di fumo, né sopra, né intorno a quel bastimento.»
«Che navighi forse soltanto alla vela?» fece osservare Pencroff. «Il vento è buono per la rotta che sembra seguire e deve avere interesse a economizzare il carbone, trovandosi molto lontano da ogni terra.»
«È possibile che abbiate ragione, signor Pencroff,» rispose Ayrton «e che quella nave abbia spento i fuochi. Lasciamo, dunque che si avvicini alla costa, e poi sapremo che cosa pensare.»
Ciò detto, Ayrton andò a sedersi in un angolo del salone e rimase silenzioso. I coloni discussero ancora della nave sconosciuta, ma senza che Ayrton prendesse parte alla conversazione.
Tutti si trovavano in una disposizione di spirito che non avrebbe loro permesso di continuare a lavorare. Gedeon Spilett e Pencroff erano singolarmente nervosi e andavano, venivano, non potendo star fermi. Harbert provava piuttosto curiosità. Nab solo conservava la sua calma abituale. Il suo Paese era là dove si trovava il suo padrone. Quanto all’ingegnere, rimaneva assorto nei suoi pensieri, e, in fondo, temeva, più che desiderare, l’arrivo di quella nave.
Intanto, il bastimento si era un poco avvicinato all’isola. Con l’aiuto del cannocchiale, era stato possibile appurare che si trattava di una nave di altura e non di uno di quei prahos malesi, di cui si servono abitualmente i pirati del Pacifico. Era, dunque, lecito credere che le apprensioni dell’ingegnere non fossero giustificate e che la presenza di quel bastimento nelle acque dell’isola di Lincoln non costituisse alcun pericolo. Pencroff, dopo una minuziosa osservazione, credette poter affermare che la nave era armata a brigantino e che correva in direzione obliqua alla costa, con le mure a dritta, le basse vele, le vele di gabbia e i velacci, come confermò Ayrton.
Ma, continuando con quell’andatura, il bastimento avrebbe dovuto in breve sparire dietro la punta del capo Artiglio, e per osservarlo sarebbe stato necessario salire sulle alture della baia Washington, vicino a Porto Pallone. Circostanza spiacevole, giacché erano già le cinque del pomeriggio e il crepuscolo non avrebbe tardato a rendere difficilissima qualunque osservazione.
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