Federico Moccia - Ho voglia di te

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"Sì, ma è la mia cena e per me è importante! E uno si augura

che non sia l'ultima cena ma che, in questo caso, sia almeno

l'unica

cena!"

E così dicendo Babi se ne va, si chiude in camera sua e sbatte

la porta. Raffaella alza le spalle. È normale essere nervosi in

questa

situazione. Proprio in quel momento si apre la porta di casa ed

entra

Claudio.

"Amore, eccomi!"

"E meno male. Ma che hai fatto fino adesso?"

Claudio la bacia frettolosamente sulle labbra.

"Scusami, ho dovuto controllare delle pratiche in ufficio." Non

le può certo dire che invece ha controllato ogni possibile

optional, i

consumi e le fantastiche prestazioni della Z4. Non solo. Ha anche

fatto fare una valutazione praticamente irrisoria della sua

Mercedes.

"Cambiati la camicia e mettiti anche un'altra cravatta. Veloce.

Ti ho preparato tutto sul letto."

"Ma scusa, non dobbiamo andare a provare il catering del mio

amico Mangili? Che bisogno c'è che mi cambio?"

"Claudio, ma dove hai la testa? Ti ho chiamato apposta stamattina

in ufficio. Mi ero completamente dimenticata che stasera

dovevamo andare dai Pentesti. Mangili l'ho spostato alla settimana

prossima! Forza, preparati, che siamo già in ritardo."

Ah già, e vero.

Claudio va in camera e cerca di recuperare il tempo perduto.

Si spoglia veloce, si leva la giacca. Proprio in quel momento un

suono

insistente arriva dal telefonino. Claudio lo prende dalla tasca

della giacca. Ecco la risposta al suo messaggio. Lo legge,

sorride,

fa appena in tempo a cancellarlo quando entra Raffaella.

"Sbrigati, che cosa perdi tempo con quel telefonino. Chi era?"

"Sì, scusa, era Filippo Accado che mi aveva mandato un messaggio."

"Filippo? E da quando in qua vi scrivete messaggi?"

"Oh, per fare prima."

Claudio si leva la camicia e s'infila quella pulita, sbottonando

solo il colletto per fare più veloce, ma anche per nascondere il

viso.

"Niente, mi diceva che lunedì non si gioca a bridge, non so cos'è

successo."

"Meglio. Vuol dire che allora organizziamo per lunedì la prova

del catering da Mangili. Forza sbrigati, che t'aspetto in

salotto."

Claudio finisce d'infilarsi la camicia e s'accascia stravolto sul

letto.

Non se l'era mai vista così brutta. Ecco, è saltato pure il

bridge.

Be', è stata la prima cosa che m'è venuta in mente, a qualcosa

bisogna

pur rinunciare. Si mette la cravatta, alza il colletto della

camicia

e prepara il nodo. E se dai Pentesti ci fossero anche gli Accado?

Cazzo, a questo non c'avevo proprio pensato. E se Filippo, che è

un

coglione, non capisse al volo? Già gli sembra di sentire la sua

voce:

"Ma Claudio che dici? Io veramente non t'ho mandato nessun

messaggio".

E in quel momento vorrebbe non andare a quella festa. Si

stringe intorno al collo l'elegante cravatta blu scelta da

Raffaella. Poi

si guarda allo specchio. E per un attimo quella cravatta gli

sembra

una terribile corda da impiccato.

Capitolo 7.

Paolo è lì che guarda la tv mentre parla al telefono, steso sul

suo letto con le gambe che sporgono un po' fuori e il suo pollice

che saltella sul telecomando cercando qualcosa che lo interessi

più

di chi sta dall'altra parte del telefono.

"Ciao, io esco."

"Dove vai?"

Lo guardo per una volta senza sorridere: "A fare un giro".

Si pente di avermelo chiesto e cerca subito di recuperare.

"Il doppio delle chiavi lo trovi in cucina dentro l'armadio a

sinistra

prima della porta in un vasetto di cotto." La sua solita

precisione.

Poi spiega a chi sta dall'altra parte del telefono cosa sta

facendo, per chi e perché. Sono il fratello tornato dall'America.

Poi mi urla da lontano. "L'hai trovato?" Mi metto le chiavi in

tasca

e ripasso davanti a lui. "Trovato." Sorride. Sta per riprendere

a parlare quando copre d'improvviso la cornetta con la mano

sinistra,

poi teso come una corda: "Ma... Vuoi che ti presto la macchina?".

È preoccupatissimo nel dirlo, pentito nell'averlo proposto,

disperato all'idea di un mio sì. Lascio passare apposta qualche

secondo. E ne godo. D'altronde non gliel'avevo mica chiesta io.

"No, lascia perdere."

"Ah, ok, ok." Fa un sospiro. Ora è più rilassato. Poi cerca

comunque

in qualche modo di risolvere la mia vita. "Hai visto, Step?

Ho fatto portare la tua moto qui sotto in garage. "

"Sì, l'ho vista, grazie." Ma la mia vita non si risolve così

facilmente.

Prendo l'ascensore e scendo in garage. Sotto un telo grigio,

lì in fondo al cortile, vedo spuntare una ruota. La riconosco.

Leggermente consumata ma ancora viva, un po' di polvere e tanti

chilometri fatti. Con una mossa da torero sfilo via il telo.

Eccola.

L'Honda Custom VF 750 blu metallizzata. Accarezzo il serbatoio.

La mia mano dipinge un segno morbido nella polvere che

dorme su quel blu. Poi alzo la sella, attacco i cavi della

batteria, e

la richiudo. Ci monto sopra. Tiro fuori le chiavi dal giubbotto e

le

infilo lì sotto. Vicino al motore. Il portachiavi penzola leggero,

oscilla, rimbalza, toccando ogni tanto il freddo motore. Più su,

una

luce fioca colora di verde e rosso il dispositivo dell'accensione.

La

batteria è scarica. Provo per sfizio, ma sarà impossibile

accenderla.

Spingo il pulsante rosso con la mano destra. Vane speranze ora

confermate. Niente da fare. Devo spingere. Esco fuori dal garage

con la moto inclinata, poggiata al corpo, sulla mia destra, contro

le gambe. I quadricipiti si gonfiano. Uno dopo l'altro, passi

leggeri,

sempre più veloci. Il battito dei passi si alterna al rumore del

brecciolino, uno, due, tre, sempre più veloce. Esco dal cortile e

la

spingo per la strada. Ora più veloce. Ancora qualche passo. La

seconda

è già inserita. Tengo con la sinistra la frizione. Ecco, è il

momento.

Lascio andare la frizione. La moto frena quasi di colpo.

Ma io continuo a spingere, e lei borbotta. Tiro la frizione e la

lascio

di nuovo. E lei tossisce. Ora, ancora, con forza. Sto sudando.

Un'ultima spinta, me lo sento. E infatti si accende di botto. Fa

uno

scatto in avanti. Tiro la frizione e do gas con la destra. Il

motore

prende vita e ruggisce nella notte, sotto le case, nella strada

buia.

Ancora gas. Esce fumo vecchio dalle marmitte, grandi nuvole che

tossiscono di passato, di lungo riposo. Ancora gas. Ci monto sopra

e accendo le luci. Poi lascio andare la frizione e via nel vento

notturno. Sudato mi asciugo correndo via veloce per la Farnesina.

Passo sotto il cavalcavia. Affronto la curva scalando piegato,

senza frenare. Levo un po' di gas per ridarlo a metà curva e

stringere

di nuovo. La moto scodinzola. Do ancora gas e come un cane

ubbidiente lei corre via con me verso Ponte Milvio, dopo la

chiesa, il Parlotta, le mille pizze mangiate lì, il Gianfornaio

sulla

sinistra e quel fioraio lì vicino. Cazzo, quanti fiori mandati da

quel

fioraio, quello che fa più sconti di tutti. Tanti fiori, sempre

diversi,

sempre per la stessa lei. Non ci penso, non ci voglio pensare.

Pistola, il cocomeraio, è lì fuori che prova un telefonino. Due

clacsonate e mi guarda. Lo saluto ma non mi riconosce. Lo andrò a

trovare più tardi per ricordargli chi sono. Me ne frego, do gas, e

scivolo via nella notte. Cazzo... Che bella, Roma. Mi sei mancata.

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