Anne Rice - Intervista col vampiro

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Intervista col vampiro: краткое содержание, описание и аннотация

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In una stanza d’albergo Louis racconta la sua vita ad un esterrefatto giornalista, la lunghissima, estenuante vita di un vampiro. Duecento anni assieme al suo maestro Lestat ed alla piccola Claudia, duecento anni in giro per il mondo, nascondendosi dalla luce e succhiando sangue…

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«‘Sei… sei tornato da lui?’

«‘No, naturalmente no’ risposi. E lui sorrise amaro, come a dire che quella era la risposta che si aspettava, che tutto sarebbe ricaduto di nuovo su di lui, e uscì sulla veranda. Sentivo che era molto vicino, in attesa.

«‘Volevo solamente rivederti, Lestat’ dissi. Ma Lestat sembrava non sentirmi. Qualcos’altro lo aveva distratto. Guardava lontano, con gli occhi spalancati, le mani vicino alle orecchie. Poi l’udii anch’io. Era una sirena. E come il suono crebbe, Lestat serrò gli occhi, si coprì le orecchie con le mani. E il suono diventò sempre più forte, risalendo la strada dal centro della città. ‘Lestat!’ urlai, al di sopra delle grida del bambino, che si levarono in quel momento per la stessa terribile paura della sirena. Ma la sua atroce sofferenza mi fece dimenticare me stesso. Le labbra gli scoprivano i denti in una spaventosa smorfia di dolore. ‘Lestat, è solo una sirena!’ gli dissi stupidamente. Si alzò dalla poltrona, venne verso di me, mi afferrò e mi strinse forte e io, senza volerlo, gli presi la mano. Lui si chinò, mi premette la testa contro il petto e mi strinse la mano così forte da farmi male. La stanza era piena dei lampi intermittenti della sirena; poi si allontanò.

«‘Louis, non posso sopportarlo, non posso sopportarlo’ ringhiò tra le lacrime. ‘Aiutami, Louis, resta con me’.

«‘Ma perché hai paura?’ domandai. ‘Non sai cosa sono queste cose?’ E quando lo guardai, quando vidi i suoi capelli biondi contro la mia giacca, mi tornò un’immagine di lui di tanto tempo prima, quell’alto, maestoso gentiluomo nel turbinante mantello nero, con la testa buttata all’indietro, che cantava con voce piena e perfetta l’aria vivace dell’opera alla quale eravamo appena stati; quel suo bastone da passeggio che batteva sul selciato a tempo con la musica; i suoi grandi occhi scintillanti che incantavano la giovane donna che si fermava, rapita, così che un sorriso illuminava il volto di Lestat e la canzone moriva sulle sue labbra; e per un attimo, per quell’attimo in cui i suoi occhi incontravano quelli della donna, tutto il male sembrava cancellato da quella vampata di piacere, da quell’entusiasmo per il semplice fatto di essere vivi.

«Era questo il prezzo di quel coinvolgimento? Una sensibilità sconvolta dal cambiamento, rovinata dalla paura? Pensai con calma a tutte le cose che avrei potuto dirgli, a come avrei potuto ricordargli che era immortale, che nulla lo condannava a questo ritiro se non lui stesso, e che era circondato dai segni evidenti di una morte inevitabile. Ma non dissi queste cose, e sapevo che non l’avrei fatto.

«Mi parve che il silenzio della stanza rifluisse rapidamente attorno a noi, come un mare oscuro che la sirena aveva sospinto lontano. Le mosche brulicavano sul cadavere putrescente di un ratto, e il bambino levò su di me uno sguardo sereno, come se i miei occhi fossero lucenti gingilli, e la sua mano piena di fossette si chiuse attorno al dito che tenevo sospeso sulla sua boccuccia morbida come un petalo.

«Lestat si era alzato, si era drizzato, ma solo per piegarsi di nuovo e strisciare nella poltrona. ‘Allora non resterai con me’ sospirò. Ma poi guardò lontano e sembrò improvvisamente assorto.

«‘Desideravo tanto parlare con te’ disse. ‘La notte che tornai a casa, a Rue Royale, desideravo solo parlare con te!’ Rabbrividì violentemente, chiudendo gli occhi, e la sua gola sembrò contrarsi. Era come se i colpi che gli avevo sferrato allora lo raggiungessero in quel momento. Guardava fisso davanti a sé senza vedere nulla, inumidendosi le labbra con la lingua, poi disse con voce bassa, quasi naturale, ‘Ti seguii a Parigi…’

«‘Cos’era che volevi dirmi?’ domandai. ‘Di che cosa volevi parlarmi?’

«Mi ricordavo perfettamente la sua folle insistenza al Teatro dei Vampiri. Per anni non ci avevo pensato. No, non ci avevo mai pensato. E mi rendevo conto che ora ne parlavo con molta riluttanza.

«Lestat si limitò a sorridermi, un sorriso insipido, quasi contrito. E scosse la testa. Vidi i suoi occhi riempirsi di una disperazione dolce, sfumata.

«Provai un senso di sollievo profondo, innegabile.

«‘Ma tu resterai!’ insistette.

«‘No’ risposi.

«‘E nemmeno io!’ fece il giovane vampiro dal buio là fuori. E restò per un attimo nella finestra aperta a guardarci. Lestat levò lo sguardo su di lui e poi lo distolse imbarazzato, il suo labbro inferiore sembrò indurirsi e tremare. ‘Chiudi, chiudi’ gridò, agitando il dito verso la finestra. Poi scoppiò in un singhiozzo e, coprendosi la bocca con la mano, abbassò la testa e pianse.

«Il giovane vampiro era sparito. Sentii i suoi passi veloci sul vialetto e il triste cigolio del cancello di ferro. Ero solo con Lestat, e lui piangeva. Passò molto tempo prima che smettesse, o almeno così mi parve; e durante tutto quel tempo non feci che osservarlo. Pensavo a tutto quello che c’era stato fra di noi. Ricordavo cose che pensavo di aver scordato completamente. E sentivo la stessa opprimente tristezza che avevo provato in Rue Royale dove avevamo vissuto. Solo che non mi sembrava una tristezza per Lestat, per quell’elegante, allegro vampiro che allora viveva con me. Mi sembrava tristezza per qualcos’altro, qualcosa che andava al di là di Lestat, che lo comprendeva ma era di più, era parte della grande, spaventosa tristezza per tutte le cose che avevo perduto o amato o conosciuto. Mi parve di essere in un luogo diverso, in un’epoca diversa. E quel luogo diverso e quell’epoca erano reali: una stanza dove gli insetti ronzavano come ronzavano qui e l’aria era stantia e densa di morte e del profumo di primavera. E io ero sul punto di riconoscere quel posto e di riconoscerlo con una sofferenza terribile, tanto terribile che la mia mente deviò e mi disse: ‘No, non riportarmi lì’. E tutt’a un tratto arretrò, ed ero con Lestat, qui, ora. Allibito vidi la mia lacrima cadere sul viso del bambino. La vidi brillare sulla sua guancia, paffuta nel sorriso. Doveva aver visto la luce nelle lacrime. Mi misi una mano sul viso e asciugai le lacrime che c’erano davvero e le guardai stupefatto.

«‘Ma Louis…’ diceva Lestat con voce sommessa. ‘Come puoi essere come sei, come puoi sopportarlo?’ Alzò lo sguardo su di me; sulla sua bocca la stessa smorfia, il suo viso bagnato di lacrime. ‘Dimmi, Louis, aiutami a capire! Come fai a capire tutto questo, come fai a sopportarlo?’ E io vedevo dalla disperazione nei suoi occhi e dal tono più grave che aveva preso la sua voce che anche lui si stava spingendo verso qualcosa che gli era estremamente doloroso, verso un luogo in cui non s’era avventurato per molto tempo. Ma poi, quando lo guardai, i suoi occhi parvero annebbiarsi, confondersi. Si strinse nella vestaglia e scuotendo la testa guardò nel fuoco. Un tremito lo percorse e gemette.

«‘Ora devo andare, Lestat’ gli dissi. Mi sentivo stanco, stanco di lui e stanco di quella tristezza. E di nuovo anelavo alla quiete là fuori, la quiete assoluta alla quale m’ero completamente abituato. Ma mi resi conto, alzandomi in piedi, che stavo portando via con me il bambino.

«Lestat mi guardò con i grandi occhi angosciati nel viso liscio, senza età. ‘Ma tu tornerai… verrai a trovarmi… Louis?’ chiese.

«Gli voltai le spalle e uscii da quella casa con calma, sentendo la voce di Lestat che mi chiamava. Quando raggiunsi la strada, guardai indietro e vidi che s’aggirava davanti alla finestra come se avesse paura a uscire. Capii che non usciva da molto, molto tempo, e che forse non sarebbe uscito mai più.

«Ritornai alla casetta da cui il vampiro aveva rapito il bambino, e lo lasciai nella sua culla.

«Non molto tempo dopo, dissi a Armand che avevo visto Lestat. Forse un mese dopo, non so bene. Il tempo significava poco per me allora, come adesso. Ma significava moltissimo per Armand. Era stupito che non gliene avessi parlato prima.

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