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Anne Rice: Intervista col vampiro

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Anne Rice Intervista col vampiro

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In una stanza d’albergo Louis racconta la sua vita ad un esterrefatto giornalista, la lunghissima, estenuante vita di un vampiro. Duecento anni assieme al suo maestro Lestat ed alla piccola Claudia, duecento anni in giro per il mondo, nascondendosi dalla luce e succhiando sangue…

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Anne rice

Intervista col vampiro

A Stan Rice, Carole Malkin e Alice O’Brien Borchardt

PARTE PRIMA

«Capisco…» disse pensieroso il vampiro, poi attraversò lentamente la stanza fino alla finestra. Qui restò a lungo, in piedi, contro la luce fioca di Divisadero Street e i bagliori intermittenti del traffico. Adesso il ragazzo riusciva a distinguere più chiaramente l’arredamento della stanza, il tavolo rotondo di quercia, le sedie. E su una parete, un lavandino e uno specchio. Posò la cartella sul tavolo e aspettò.

«Quanto nastro hai con te?» chiese il vampiro voltandosi, così che il ragazzo ora ne poteva scorgere il profilo. «Ce n’è abbastanza per la storia di una vita?»

«Certo, se è una bella vita. A volte, quando mi va bene, intervisto anche tre o quattro persone in una notte. Ma dev’essere una bella storia. Mi pare corretto, no?»

«Molto» rispose il vampiro. «Quand’è così, desidero raccontarti la storia della mia vita. Lo desidero veramente».

«Perfetto» disse il ragazzo. Estrasse rapidamente il piccolo registratore dalla cartella e controllò cassetta e batterie. «Sono proprio impaziente di sentire che cosa glielo fa credere, perché lei…»

«No» interruppe il vampiro. «Non possiamo cominciare così. Sei pronto col tuo apparecchio?»

«Sì».

«Allora siediti. Io accendo la lampada lassù».

«Pensavo che i vampiri non amassero la luce» intervenne il ragazzo. «Non crede che il buio aumenti l’atmosfera…» Poi si fermò. Il vampiro, con le spalle alla finestra, lo osservava. Il ragazzo non riusciva a decifrare l’espressione del suo viso: c’era qualcosa che lo inquietava in quella figura immobile. Di nuovo provò a dire qualcosa e rinunciò. Tirò un sospiro di sollievo quando il vampiro si diresse verso il tavolo e afferrò il cordone della lampada.

Di colpo la stanza fu inondata da una cruda luce gialla. Il ragazzo, levando gli occhi sul vampiro, non riuscì a trattenere un moto di stupore. Le sue dita arretrarono danzando sul tavolo fino ad artigliare il bordo. «Santo Cielo!» mormorò, poi riprese a fissarlo ammutolito.

Il vampiro era perfettamente candido e levigato, come scolpito nell’avorio, e il suo viso appariva esanime come una statua, a eccezione di quegli occhi verdi, ardenti come fiamme in un teschio, che scrutavano intensamente il ragazzo. Ma poi il vampiro sorrise con un velo di malinconia e la liscia massa bianca del suo volto si mosse ridisegnandosi con i tratti infinitamente flessibili ed essenziali di un cartone animato. «Vedi?» chiese dolcemente.

Il ragazzo rabbrividì, alzando la mano come per ripararsi da una luce violenta. Il suo sguardo scorse lentamente sulla giacca nera e impeccabile appena intravista nel bar, sulle lunghe pieghe del mantello, sulla cravatta di seta nera annodata alla gola e sul luccichio del colletto, bianco come la carne del vampiro. S’incantò a osservare la folta capigliatura corvina, le onde pettinate all’indietro sulle orecchie e i riccioli che sfioravano appena l’orlo del colletto.

«Allora, la vuoi ancora l’intervista?» domandò il vampiro.

Il ragazzo aprì la bocca prima di riuscire a emettere un suono. Annuì. «Sì» rispose infine.

Il vampiro si sedette lentamente di fronte a lui e sporgendosi in avanti gli disse in tono gentile, confidenziale: «Non aver paura. Fai partire il nastro».

Allungò un braccio verso il ragazzo. Questo fece un balzo all’indietro, mentre due rivoli di sudore gli scorrevano ai lati del viso. Il vampiro gli strinse vigorosamente una spalla. «Credimi, non ti farò del male» lo rassicurò. «Ci tengo davvero a questa occasione. È molto più importante per me di quanto tu possa credere. Voglio cominciare». Ritirò la mano e rimase immobile in attesa.

Il ragazzo si asciugò fronte e labbra col fazzoletto, balbettò che il microfono era inserito, schiacciò il tasto e annunciò che l’apparecchio era acceso.

«Lei non è stato sempre un vampiro, vero?» attaccò.

«No» rispose l’altro. «Avevo venticinque anni quando lo divenni; era il 1791».

Il ragazzo fu colpito dalla precisione della data, che ripeté prima di chiedere: «Come avvenne?»

«Ci sarebbe una risposta molto semplice. Ma non credo di aver voglia di dare risposte semplici» disse il vampiro. «Credo di voler raccontare la storia vera…»

«Sì» commentò precipitosamente il ragazzo, che continuava a spiegare e ripiegare il fazzoletto e aveva ricominciato ad asciugarsi le labbra.

«Ci fu una tragedia…» cominciò il vampiro. «Il mio fratello minore… morì». Poi si fermò, dando modo al ragazzo di schiarirsi la voce e di asciugarsi ancora il viso col fazzoletto prima di cacciarselo in tasca quasi con impazienza.

«Non le fa male, vero?» chiese timidamente.

«Do quest’impressione?» ribatté il vampiro. «No». Scosse la testa. «Ma è una storia che ho raccontato solo a un’altra persona… e tanto tempo fa. No, non mi fa male…

«A quel tempo vivevamo in Louisiana. Ci avevano assegnato della terra e noi ci tenevamo due piantagioni di indaco, sul Mississippi, molto vicino a New Orleans…»

«Ah, ecco l’accento…» disse piano il ragazzo.

Per un istante il vampiro lo fissò senza espressione. «Ho un accento?» Cominciò a ridere.

Agitatissimo, il ragazzo rispose frettolosamente. «L’ho notato al bar quando le ho chiesto che cosa faceva per vivere. Solo una leggera asprezza delle consonanti, niente altro. Non avevo immaginato che fosse francese».

«Non preoccuparti» lo rassicurò il vampiro. «Non sono stupito come sembro, solo che qualche volta me ne dimentico. Ma lasciami andare avanti…»

«La prego…» mormorò il ragazzo.

«Stavo parlando delle piantagioni. Ebbero davvero una parte importante nella faccenda, voglio dire, in come diventai un vampiro. Ma ci arriveremo. La nostra vita era nello stesso tempo lussuosa e primitiva. Per noi era il massimo del piacere: capisci, lì vivevamo infinitamente meglio di come avremmo mai potuto vivere in Francia. O forse era solo un’illusione, causata da quel luogo assolutamente selvaggio che era la Louisiana; ma, dato che a noi sembrava così, lo era davvero. Ricordo i mobili importati che ingombravano la casa» il vampiro sorrise. «E il clavicembalo: delizioso. Lo suonava mia sorella. Le sere d’estate si sedeva alla tastiera con la schiena rivolta alle porte-finestre spalancate. Ricordo ancora quella musica lieve, scorrevole, e vedo la palude che si stendeva al di là delle sue spalle, i cipressi ornati di muschio che ondeggiavano contro il cielo… E poi i suoni della palude, un coro di creature, le grida degli uccelli. Credo ne fossimo innamorati; ci faceva apparire i mobili di palissandro più preziosi che mai, la musica più delicata e desiderabile. Persino quando il glicine spezzò le persiane nell’attico e, in meno di un anno, penetrò coi suoi viticci le pareti di mattone imbiancato… sì, ne eravamo innamorati. Tutti tranne mio fratello: non ricordo di averlo mai sentito lamentarsi di qualcosa, ma sapevo cosa provava. A quel tempo mio padre era morto, io ero il capofamiglia, e mi toccava continuamente difenderlo da mia madre e da mia sorella. Pretendevano di portarlo in visita, o alle feste di New Orleans, ma lui odiava questo genere di cose. Mi pare che avesse smesso di andarci prima dei dodici anni. L’unica cosa che contava per lui era la preghiera, la preghiera e un libro di vite dei santi rilegato in pelle.

«Alla fine gli costruii una cappella lontano dalla casa e lui prese a passarci la maggior parte della giornata e spesso anche le prime ore della sera. C’è dell’ironia in questo, a pensarci bene. Lui era così diverso da noi, diverso da tutti, mentre io ero così normale! In me non c’era nulla, proprio nulla fuori dell’ordinario». Il vampiro sorrise.

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