Anne Rice - Intervista col vampiro

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Intervista col vampiro: краткое содержание, описание и аннотация

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In una stanza d’albergo Louis racconta la sua vita ad un esterrefatto giornalista, la lunghissima, estenuante vita di un vampiro. Duecento anni assieme al suo maestro Lestat ed alla piccola Claudia, duecento anni in giro per il mondo, nascondendosi dalla luce e succhiando sangue…

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«Certe volte alla sera uscivo a cercarlo e lo trovavo nel giardino fuori dalla cappella che sedeva assorto su una panchina di pietra; allora gli raccontavo i miei problemi, le difficoltà con gli schiavi, la mia sfiducia nel sorvegliante, nel tempo o nell’amministratore… tutte le preoccupazioni che costituivano le coordinate della mia esistenza. E lui stava ad ascoltare, facendo appena qualche commento, sempre partecipe; me ne andavo con la netta impressione che mi avesse risolto ogni cosa. Non credevo che avrei mai potuto negargli alcunché, e promisi solennemente a me stesso che, quando fosse giunto il momento, gli avrei concesso di abbracciare il sacerdozio, per quanto straziante per me potesse essere la sua perdita. Naturalmente, mi sbagliavo». Il vampiro si fermò.

Per un momento il ragazzo stette a guardarlo in silenzio, poi sussurrò come risvegliandosi da profonde riflessioni: sembrava che non riuscisse a trovare le parole giuste. «Ah… non voleva farsi prete?» azzardò.

Il vampiro lo studiò come se cercasse di decifrare il significato della sua espressione. Poi disse:

«Intendevo dire che mi sbagliavo sul mio conto, sul fatto di non negargli nulla». Il suo sguardo corse sulla parete in fondo fino a fissarsi sui vetri della finestra. «Cominciò ad avere delle visioni».

«Visioni vere e proprie?» domandò il ragazzo ancora esitante, come pensando ad altro.

«Allora non lo credevo» rispose il vampiro. «Accadde quando aveva quindici anni. A quell’epoca era molto bello: aveva una pelle liscissima e immensi occhi azzurri. Era robusto, non magro come me adesso… e come ero anche allora… ma i suoi occhi… quando lo guardavo negli occhi mi pareva di essere solo ai limiti del mondo… su una spiaggia dell’oceano spazzata dal vento. C’era solo il sommesso mugghiare delle onde, nient’altro. Be’» riprese, gli occhi ancora fissi alla finestra, «cominciò ad avere delle visioni. Sulle prime non ne parlò quasi, ma smise completamente di venire a casa a mangiare. Viveva nella cappella. A qualsiasi ora del giorno e della notte lo trovavo inginocchiato davanti all’altare, sulla nuda pietra. E la cappella stessa era in stato d’abbandono. Aveva smesso di badare alle candele o di cambiare le tovaglie dell’altare o persino di scopare via le foglie. Una notte mi allarmai veramente: ero stato a osservarlo dal pergolato di rose per un’ora intera, e per tutto quel tempo lui era rimasto in ginocchio senza mai muoversi e senza abbassare neanche una volta le braccia, che teneva spiegate a formare una croce. Gli schiavi pensavano tutti che fosse pazzo». Il vampiro alzò le sopracciglia con aria stupita. «Io ero convinto che si trattasse soltanto di… un eccesso di zelo. Che nel suo amore per Dio avesse forse esagerato. Poi mi parlò delle visioni. Sia San Domenico che la Madonna erano andati a visitarlo nella cappella, gli avevano detto di vendere tutte le nostre proprietà in Louisiana, tutto quello che possedevamo, e di devolvere il denaro alle opere di Dio, in Francia. Mio fratello doveva diventare un grande capo religioso, riportare il paese all’antico fervore e arrestare la marea dell’ateismo e della rivoluzione. Naturalmente, lui non possedeva denaro suo. Ero io che dovevo vendere le piantagioni e le nostre case di New Orleans e dargli il denaro».

Di nuovo il vampiro si fermò. E il ragazzo sedeva immobile, guardandolo allibito. «Ah… mi scusi» sussurrò. «Cosa fece lei? Vendette le piantagioni?»

«No». Il volto del vampiro era sempre disteso. «Io risi. E lui… lui arrivò all’esasperazione. Insisteva che l’ordine gli proveniva dalla Vergine stessa: chi ero io per non curarmene? Chi ero io?» ripeté piano, come se stesse nuovamente cercando la risposta a quella domanda. «Chi ero, in effetti? E più tentava di convincermi, più lo deridevo. Era una sciocchezza, gli dicevo, il frutto di una mente immatura e anche malata. La cappella era stata un errore: l’avrei fatta abbattere immediatamente. Andando a scuola a New Orleans si sarebbe tolto dalla testa queste assurdità. Non ricordo tutto quello che dissi, ma ricordo i sentimenti che provai. Dietro a tutto il mio disprezzo e i miei rifiuti c’erano ira repressa e delusione. Ero amaramente deluso. Non gli credevo affatto».

«Ma è comprensibile» si inserì il ragazzo nella pausa, mentre l’espressione esterrefatta del suo viso si attenuava. «Voglio dire, chi gli avrebbe creduto?»

«E davvero così comprensibile?» Il vampiro guardò il ragazzo. «Io penso che si trattasse di perverso egoismo; lascia che ti spieghi. Io amavo davvero mio fratello, e a volte credevo proprio che fosse un santo in terra. Lo incoraggiavo nella preghiera e nelle meditazioni, come dicevo, ed ero disposto a rinunciare a lui se avesse voluto prendere gli ordini. Se qualcuno mi avesse parlato d’un santo, ad Arles o a Lourdes, che aveva delle visioni, gli avrei creduto. Ero cattolico; credevo nei santi. Conoscevo le loro immagini, i loro simboli, i loro nomi; accendevo ceri nelle chiese davanti alle loro statue di marmo. Ma non credevo, non potevo credere a mio fratello. Non solo non credevo che avesse delle visioni, ma non riuscivo a prendere in considerazione l’idea neppure per un momento. E perché? Perché era mio fratello. Santo poteva anche essere; fuori della norma, senz’altro. Ma Francesco d’Assisi proprio no. Non mio fratello; un mio fratello non ne aveva diritto. Questo è egoismo, capisci?»

II ragazzo riflette un po’ prima di rispondere, fece cenno col capo e disse che sì, credeva di sì.

«Forse ebbe davvero quelle visioni» riprese il vampiro.

«Allora… lei non crede di sapere… adesso… se le avesse avute o no?»

«No, però so che non vacillò nella sua convinzione neppure per un istante. Questo lo so adesso e lo sapevo allora, la notte che lasciò la mia stanza in preda all’esaltazione e al dolore. Non vacillò mai neppure un istante. E pochi minuti dopo, era morto».

«In che modo?» chiese il ragazzo.

«Semplicemente, attraversò la porta-finestra che dava sulla veranda, stette per un momento in cima alla scala di mattoni e poi cadde. Quando io arrivai era già morto; s’era rotto l’osso del collo». Il vampiro scosse la testa in segno di costernazione, ma il suo viso era ancora sereno.

«Lo vide cadere?» chiese il ragazzo. «Perse l’equilibrio?»

«No, ma due domestici lo videro. Dissero che aveva guardato in su, come se avesse visto qualcosa in cielo. Poi tutto il suo corpo s’era mosso in avanti come se fosse stato spinto dal vento. Uno dei domestici riferì anche che mio fratello stava per dire qualcosa quando cadde. Anch’io pensavo che stesse per dire qualcosa, ma fu in quel momento che mi scostai dalla finestra. Gli ero di spalle quando udii il tonfo». Lanciò un’occhiata al registratore. «Non riuscivo a perdonarmelo. Mi sentivo responsabile della sua morte… e anche tutti gli altri sembravano convinti che io lo fossi».

«Ma com’è possibile? Non ha detto che lo videro cadere?»

«Non era un’accusa diretta. Però tutti sapevano che tra noi era successo qualcosa di spiacevole, che c’era stata un’accesa discussione poco prima della disgrazia. I domestici e mia madre ci avevano sentito. Mia madre non smetteva di chiedermi cosa era accaduto e come mai mio fratello, sempre così tranquillo, si fosse messo a gridare. Poi ci si mise anche mia sorella, e naturalmente io mi rifiutavo di parlare. Ero talmente sconvolto, disperato e infelice che non me la sentivo d’avere pazienza con nessuno; e a ogni costo ero deciso a non parlare con loro di quelle ‘visioni’. Non avrebbero mai saputo che mio fratello era diventato non un santo, ma solo… un fanatico. Mia sorella si mise a letto per non affrontare il funerale; mia madre raccontò a tutti in parrocchia che qualcosa di orribile era successo nella mia stanza, qualcosa che io non intendevo rivelare. Persino la polizia mi interrogò, su richiesta di mia madre. Infine venne a trovarmi il prete e pretese di sapere cos’era successo. Non lo rivelai a nessuno. Dissi che c’era stata solo una discussione. Io non ero nella veranda quando lui era caduto, protestai, e tutti mi guardavano come se l’avessi ucciso io. Ma anch’io avevo questa sensazione. Restai seduto nel salottino accanto al feretro per due giorni, continuando a pensare che lo avevo ucciso io. Rimasi a guardare il suo viso finché mi apparvero delle macchie davanti agli occhi e fui lì lì per svenire. La parte posteriore del cranio s’era fracassata sul selciato, e la testa sul cuscino aveva una forma sbagliata. Mi costringevo a guardarla, a studiarla, vincendo il dolore e il lezzo della decomposizione, ed ero spesso tentato di provare ad aprirgli gli occhi. Fantasie demenziali, impulsi folli! Ma il pensiero dominante era questo: l’avevo deriso, non gli avevo creduto, ero stato duro con lui. Era caduto per colpa mia».

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