Anne Rice - Intervista col vampiro
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- Название:Intervista col vampiro
- Автор:
- Издательство:Salani
- Жанр:
- Год:1977
- Город:Firenze
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«Cosa avrebbe potuto fare?» chiese il ragazzo. «Che cosa vuoi dire?»
«Uccidere non è un atto qualsiasi» spiegò il vampiro. «Non si tratta solo di rimpinzarsi di sangue». Scosse la testa. «È l’esperienza di un’altra vita, della perdita di quella vita, attraverso il sangue, lentamente; è rinnovare il ricordo della perdita della mia propria vita, quando succhiai il sangue dal polso di Lestat e udii il suo cuore battere con il mio cuore. Molte volte è una celebrazione di quell’esperienza; perché per i vampiri quella è l’esperienza suprema». Lo disse con un tono estremamente serio, come se stesse discutendo con qualcuno di parere diverso. «Non credo che Lestat l’abbia mai compreso, anche se non so come fosse possibile. Credo che qualcosa capisse, ma molto poco, penso, di quel che c’era da sapere. A ogni modo, allora non pensò neanche lontanamente di rammentarmi ciò che avevo provato quando ero attaccato al suo polso per riceverne la vita e non volevo mollarlo; né si degnò di scegliermi un posto in cui fare la mia prima esperienza di omicidio con un minimo di dignità e di tranquillità. Si gettò a capofitto nella lotta come fosse qualcosa da lasciare alle spalle il più presto possibile, come qualche metro di strada. Balzato sullo schiavo, gli tappò la bocca e gli denudò il collo, tenendolo stretto. ‘Avanti’ disse. ‘Ormai non puoi più tornare indietro’. Disgustato e infiacchito dalla delusione, gli obbedii. M’inginocchiai accanto a quell’uomo piegato che lottava, e stringendogli con le mani le spalle in una morsa penetrai nel suo collo. I miei denti avevano appena iniziato a trasformarsi, perciò dovetti lacerargli la carne, non pungerla; ma una volta prodotta la ferita, il sangue prese a scorrere. E dopo, dopo che mi ci attaccai e bevvi… tutto il resto si dileguò.
«Lestat, la palude, il rumore del campo lontano non mi dicevano nulla. Lestat avrebbe potuto essere un insetto che ronza, si posa, e poi svanisce dall’orizzonte del significato. Succhiare mi aveva ipnotizzato; il caldo vigore con lui l’uomo si ribellava m’alleviava la tensione delle mani; sentii ancora quel rullo di tamburo — il battito del suo cuore — solo questa volta batteva perfettamente a tempo col mio, e li sentivo risuonare in ogni fibra del mio essere, finché il battito cominciò a farsi sempre più lento e i due suoni divennero brontolii sordi che minacciavano di continuare in eterno. Stavo assopendomi, scivolando senza peso; in quel momento Lestat mi tirò indietro: ‘È morto, idiota!’ disse, con la consueta grazia. ‘Non si beve quando sono morti! Ricordalo!’ Ma io deliravo, non ero in me, insistevo che il cuore di quell’uomo batteva ancora, spasimavo dal desiderio di riattaccarmi a lui. Le mie mani corsero al suo petto, poi gli afferrarono i polsi: glieli avrei incisi se Lestat non mi avesse scaraventato a terra e schiaffeggiato. Quello schiaffo fu stupefacente. Non provai il solito dolore. Fu un colpo tremendo, una scossa di tutti i sensi, mi proiettò in un vortice di confusione e mi lasciò inerme e sbigottito, col dorso appoggiato a un cipresso, la notte brulicante di insetti nelle mie orecchie. ‘Se lo fai, crepi’ stava dicendo Lestat. ‘Se gli resti attaccato quand’è morto ti risucchia nella morte con lui. E adesso hai bevuto troppo, per giunta; starai male’. La sua voce mi irritava. All’improvviso mi assalì violentissimo l’impulso di gettarmi su di lui, ma mi sentivo proprio come aveva detto. C’era un dolore sordo nel mio stomaco, come se un gorgo m’inghiottisse le interiora. Era quel sangue che passava troppo rapidamente nel mio, ma io lo ignoravo. Lestat ora si muoveva nella notte come un gatto. Io lo seguivo, la testa mi scoppiava, e il dolore allo stomaco non era ancora passato quando arrivammo alla casa di Pointe du Lac.
«Seduti al tavolo del salotto, mentre Lestat distribuiva le carte di un solitario, lo guardavo con disprezzo. Borbottava delle stupidaggini. Diceva che mi sarei abituato a uccidere, che non sarebbe stato niente di speciale. Non potevo permettermi di essere emotivo; reagivo in modo eccessivo, come se non mi fossi scrollato di dosso gli ‘affanni mortali’. Mi sarei abituato fin troppo presto a queste cose. ‘Tu credi?’ gli chiesi infine. Ma di quel che avrebbe risposto non m’importava granché: ormai avevo capito quanto eravamo diversi. Per me quell’omicidio era stato un cataclisma, quanto l’aver bevuto dal polso di Lestat. Queste esperienze avevano talmente sconvolto e modificato il mio modo di percepire tutto quello che mi circondava, dal ritratto di mio fratello sulla parete del salotto alla visione di una stella solitaria nel riquadro più in alto della porta-finestra, che non riuscivo a concepire come un altro vampiro potesse trovare tutto scontato. Ero definitivamente cambiato, lo sentivo. E ciò che provavo, per ogni cosa, anche per il suono delle carte da gioco deposte una per una sulle file splendenti del solitario, era rispetto. Per Lestat era tutto il contrario, o non provava nulla: un essere amorfo da cui non si poteva ricavare niente. Noioso, banale e infelice come un mortale, cianciava sul gioco, minimizzando la mia esperienza, totalmente corazzato contro la possibilità di fare a sua volta qualsiasi esperienza rilevante. Quando venne il mattino mi resi conto che gli ero del tutto superiore e che nel sceglierlo per maestro ero stato tristemente ingannato. Doveva guidarmi attraverso le lezioni necessarie, sempre che ce ne fossero ancora, e io avrei dovuto sopportare il suo crudele modo di fare, per me addirittura blasfemo, verso la vita stessa. Per lui provavo indifferenza: nella mia superiorità, non lo disprezzavo nemmeno. Solo, avevo fame di nuove esperienze, fame del bello e del travolgente, come il mio omicidio. Capii che per far rendere al massimo ogni possibile esperienza dovevo esercitare i miei poteri su ciò che imparavo. Lestat era completamente inutile.
«Era già passata la mezzanotte quando finalmente mi alzai dalla sedia e uscii sulla veranda. La luna era grande sopra i cipressi, e la luce delle candele si riversava fuori dalle porte aperte. I grossi pilastri intonacati e le pareti della casa erano stati imbiancati di fresco, le assi del pavimento appena spazzate, e una pioggia estiva aveva reso l’aria pulita e sfavillante di gocce. Mi appoggiai contro l’ultimo pilastro della veranda sfiorando con la testa i morbidi viticci d’un gelsomino che cresceva in perenne contesa col glicine; pensai a che cosa mi aspettava in tutto il mondo e per tutto il tempo a venire, e mi risolsi ad accostarmici con rispetto, imparando da ogni cosa ciò che mi avrebbe aiutato ad affrontarne un’altra. Cosa ciò significasse, non lo sapevo neanch’io. Capisci quando dico che non volevo gettarmi a capofitto nelle esperienze, che le sensazioni che avevo provato come vampiro erano assolutamente troppo forti perché potessi osare dissiparle?»
«Sì» rispose il ragazzo con ardore. «Sembra come quando si è innamorati».
Gli occhi del vampiro luccicarono. «Giusto. Somiglia all’amore» sorrise. «E ti racconto il mio stato d’animo di quella notte, perché tu possa renderti conto che esistono profonde differenze tra vampiro e vampiro, e di come arrivai ad assumere un atteggiamento diverso da quello di Lestat. Devi capire che non lo snobbavo perché non comprendeva il valore della sua esperienza; semplicemente, non riuscivo a capire come si potessero sprecare simili sensazioni. Ma ecco che Lestat fece qualcosa che m’avrebbe indicato un modo di imparare.
«C’era qualcosa di più in lui, nei confronti di Pointe du Lac, che un semplice apprezzamento della ricchezza. S’era molto compiaciuto della bellezza delle porcellane usate per la cena di suo padre; amava la sensazione che offrivano al tatto i panni di velluto e ricalcava i disegni dei tappeti con la punta delle scarpe. Ora estrasse un bicchiere di cristallo da una delle vetrine dicendo: ‘Mi mancano i bicchieri’. Però lo disse con un piacere così malizioso che m’indusse a studiarlo con occhio severo. Lo detestavo intensamente! ‘Voglio mostrarti un trucco’ m’annunciò. ‘Cioè, se ti piacciono i bicchieri’. Dopo averlo posato sul tavolo delle carte uscì sulla veranda, dov’ero io. Sembrava di nuovo un animale in agguato, con gli occhi che tagliavano il buio oltre le luci della casa e scrutavano il terreno sotto i rami inarcati delle querce. In un baleno saltò la ringhiera e atterrò dolcemente sul terriccio, quindi si lanciò nel buio pesto per afferrarvi qualcosa con tutt’e due le mani. Quando tornò e me la mostrò, vidi con sgomento che era un ratto. ‘Non fare lo scemo’ mi disse. ‘Non hai mai visto un ratto?’ Era un enorme ratto di campagna, con una lunga coda, che si dibatteva disperatamente. Lestat lo teneva per il collo in modo che non potesse mordere. ‘I ratti non sono niente male’ disse. Lo accostò al bicchiere di cristallo, gli squarciò la gola e riempì veloce il bicchiere di sangue. Poi lanciò il ratto contro la ringhiera della veranda e levò trionfante il calice verso la candela. ‘Può capitare di dover vivere di ratti, di tanto in tanto, perciò vedi di levarti quell’espressione dalla faccia’ continuò. ‘Ratti, polli, bestiame. Se viaggi in nave, meglio che t’accontenti dei ratti, se non vuoi terrorizzare l’equipaggio e spingerlo a cercare la tua bara. È molto, molto meglio ripulire la nave dai ratti’. E si mise a sorseggiare il sangue, centellinandolo come si fosse trattato di vino di Borgogna. Fece una leggera smorfia. ‘Si raffredda così in fretta…’
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