Anne Rice - Intervista col vampiro
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- Название:Intervista col vampiro
- Автор:
- Издательство:Salani
- Жанр:
- Год:1977
- Город:Firenze
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«Quel modo di vita, come ho detto, era sopportabile. Con quel suo sorriso beffardo, Lestat voleva farmi intuire che aveva poteri terribili e rapporti con le tenebre che nemmeno potevo immaginare; e non perdeva occasione per sminuirmi o punzecchiarmi per il mio amore dei sensi, per la mia riluttanza a uccidere, e per quella specie di deliquio che uccidere provocava in me. Rise fragorosamente quando scoprii che potevo vedermi nello specchio e che le croci non mi facevano nessun effetto, e quando gli chiedevo di Dio o del diavolo mi provocava chiudendo ermeticamente le labbra. ‘Una notte mi piacerebbe incontrare il diavolo’ disse una volta con un sorriso maligno. ‘Lo inseguirei da qui alle foreste del Pacifico. Io sono il diavolo’ E vedendo la mia espressione stupefatta, si sbellicò dalle risate. Ma in realtà, disprezzandolo, finii per ignorarlo e per diffidare di lui, pur studiandolo con una specie di distaccato rapimento. A volte mi sorprendevo a fissare quel polso che m’aveva trasformato in vampiro, e cadevo in una tale immobilità che mi sembrava che la mia mente abbandonasse il corpo, o meglio che il mio corpo diventasse la mia mente; lui se ne accorgeva e mi guardava, in quella sua ostinata ignoranza di ciò che provavo e di ciò che anelavo conoscere, e mi riscuoteva brutalmente da quello stato. Sopportai tutto questo con un distacco a me sconosciuto nella vita mortale, finché mi resi conto che faceva parte della mia nuova natura: che avrei potuto stare a Pointe du Lac, pensando per ore alla vita di mio fratello e vederla breve e compiuta nelle tenebre imperscrutabili, capendo finalmente quant’era vana e dissennata la passione devastante con cui avevo pianto la sua perdita e mi ero rivoltato contro gli altri mortali come un animale impazzito. Tutta quella confusione ora somigliava a dei ballerini folli che si dimenavano nella nebbia; e ora, calato in questa strana natura di vampiro, provavo una profonda tristezza. Ma non stavo a rimuginare. Non vorrei darti quest’impressione, perché sarebbe stato tempo sprecato; invece mi guardavo intorno, osservavo i mortali che conoscevo e vedevo tutta la vita come cosa preziosa, condannando tutti gli inutili sensi di colpa e le sterili passioni che la fanno scivolare tra le dita come sabbia. Fu solo allora, da vampiro, che conobbi veramente mia sorella. Le proibii di stare alla piantagione in modo che potesse condurre quella vita di città che le avrebbe permesso di vivere i suoi giorni felici, di mettere alla prova la sua bellezza, di trovare marito; invece d’intristirsi sul fratello perduto, o perché io mi allontanavo da lei, o facendo da infermiera a mia madre. Cercavo di dare loro tutto ciò di cui potevano avere bisogno o desiderio, tenendo in considerazione anche le richieste più banali. Mia sorella rideva della mia trasformazione, quando ci incontravamo di notte e la portavo fuori dal nostro appartamento per le strette strade, a passeggiare al chiaro di luna lungo l’argine tappezzato di alberi, assaporando gli effluvi dei fiori d’arancio e il carezzevole tepore, discorrendo per ore dei suoi pensieri e dei suoi sogni più segreti, quelle piccole fantasie che non osava dire a nessuno e che persino a me riusciva a confessare soltanto in un sussurro nella fioca luce del salotto. La vedevo davanti a me: una creatura scintillante, preziosa, che presto sarebbe invecchiata, presto sarebbe morta, presto avrebbe irrimediabilmente perduto questi momenti che nella loro intangibilità ci facevano sperare, a torto… a torto, in una sorta d’immortalità. Come se si trattasse di un nostro diritto innato, di cui non si afferra il significato fino a quel punto della vita in cui ci vediamo davanti solo tanti anni quanti già ce ne siamo lasciati alle spalle. Quando ogni istante, ogni istante, va prima conosciuto e poi assaporato.
«Era il distacco che rendeva possibile tutto questo, era una sublime solitudine quella con cui Lestat e io ci muovevamo nel mondo degli uomini mortali. E ogni preoccupazione materiale era superata. Bisognerà che ti spieghi come funzionava sul piano pratico.
«Lestat aveva sempre saputo come derubare le vittime, scelte per l’abbigliamento sontuoso e per altri promettenti segni di stravaganza. Ma i problemi fondamentali dell’asilo e della segretezza lo avevano sempre messo in difficoltà. Avevo l’impressione che sotto quell’apparenza da gentiluomo ci fosse una profonda ignoranza delle più elementari questioni finanziarie. Ma io me ne intendevo, così lui poteva procurarsi il denaro in qualsiasi momento e io potevo investirlo. Quando non svuotava le tasche d’un morto in qualche vicolo, era seduto ai più importanti tavoli da gioco nei salotti più ricchi della città, adoperando la sua scaltrezza di vampiro per succhiare oro, dollari e atti di proprietà ai giovani rampolli dei coloni che si lasciavano ingannare dalla sua cordialità e sedurre dal suo fascino. Tuttavia non era mai riuscito a condurre la vita che desiderava; per questo mi aveva introdotto nel mondo del soprannaturale: per procurarsi qualcuno che investisse e amministrasse il denaro, qualcuno che disponesse di queste abilità della vita mortale, preziosissime in quest’altra vita.
«Ma lascia che ti descriva New Orleans com’era allora, così capirai, quant’era semplice la nostra vita. In tutta l’America non c’era una città come New Orleans; non solo c’erano francesi e spagnoli d’ogni classe che avevano costituito l’elemento originario di quella singolare aristocrazia locale, ma vi si erano poi anche riversati emigranti d’ogni provenienza, soprattutto irlandesi e tedeschi. E non c’erano solo gli schiavi negri, che erano ancora eterogenei ed eccentrici nei loro diversi abbigliamenti e comportamenti tribali, ma tutta quella classe, che andava aumentando, della gente libera di colore, gente meravigliosa in cui si mischiava il nostro sangue e quello delle isole, che produceva una magnifica ed eccezionale casta di artigiani, artisti, poeti, e donne di rinomata bellezza. Poi c’erano gli indiani, che nei giorni d’estate ricoprivano l’argine con le erbe e gli oggetti d’artigianato che vendevano. E in mezzo a tutta quest’accozzaglia di lingue e di colori s’aggirava la gente del porto, i marinai, che arrivavano a grandi ondate per spendere il loro denaro nei cabaret, per comprarsi una notte con quelle belle donne, scure o chiare che fossero, per cenare nei migliori ristoranti francesi e spagnoli e bere vini d’importazione. Aggiungi, qualche anno dopo la mia trasformazione, gli americani che estesero la città dal vecchio quartiere francese verso la sorgente del fiume, costruendo dimore sontuose in stile greco, che brillavano come templi al chiaro di luna. Infine, naturalmente, c’erano i coloni, sempre i coloni, che scendevano in città coi loro lucidi landò a comprare abiti da sera, argento e gemme, ad affollare le stradine anguste che portavano al vecchio Teatro dell’Opera francese, al Théàtre d’Orléans e alla cattedrale di St. Louis, dalle cui porte spalancate le salmodie della messa cantata si spandevano sulla folla che riempiva la Place d’Armes, sui rumori e sui bisticci del mercato francese, sul moto silenzioso, spettrale delle barche lungo le acque rialzate del Mississippi, che scorreva contro l’argine sopra il livello della stessa New Orleans, di modo che le barche sembravano galleggiare nel cielo.
«Questa era New Orleans, un luogo magico e magnifico, dove un vampiro riccamente vestito che attraversava elegantemente una dopo l’altra le pozze di luce delle lampade a gas, non avrebbe potuto, di sera, essere notato più di centinaia d’altre creature esotiche — sempre che fosse notato affatto, che qualcuno s’arrestasse e sussurrasse da dietro un ventaglio: ‘Quell’uomo… com’è pallido, che strana luminosità… come si muove. Non sembra naturale!’ Una città in cui un vampiro poteva dileguarsi prima che le parole formulate sulle labbra avessero il tempo di prendere suono, rifugiarsi nei vicoli dove vedeva come un gatto, nei bar senza luce dove i marinai dormivano con la testa sul tavolo, in stanze d’albergo dagli alti soffitti dove una donna solitaria poteva stare coi piedi su un cuscino ricamato, le gambe coperte da un copriletto di pizzo e la testa reclinata sotto la luce fioca di un’unica candela senza mai vedere la grande ombra muoversi sui fiori di stucco del soffitto o le lunghe dita bianche protendersi per spegnere la fragile fiamma.
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