Anne Rice - Intervista col vampiro
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- Название:Intervista col vampiro
- Автор:
- Издательство:Salani
- Жанр:
- Год:1977
- Город:Firenze
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«Dalla sua espressione capivo che aveva ascoltato ogni parola. Se ci fosse stato tempo m’avrebbe rivolto delle domande, ma mi credette quando le dissi che non potevo fermarmi. Usai tutta la mia abilità per lasciarla tanto velocemente da farle sembrare che svanissi. Dal giardino vidi il suo volto lassù nel bagliore delle candele. Mi cercava nel buio, girandosi e rigirandosi. Poi si fece il segno della croce e tornò dalle sorelle».
Il vampiro sorrise. «Su tutta la costa del fiume non ci fu una chiacchiera a proposito di questa strana apparizione a Babette Frenière, ma dopo il primo momento di lutto e di tristezza delle donne rimaste sole, lei diventò lo scandalo del vicinato, avendo scelto di gestire da sola la piantagione. Mise insieme una dote considerevole per la sorella minore, e si maritò lei stessa un anno dopo. Nel frattempo Lestat e io non ci rivolgevamo quasi più la parola».
«Continuava a vivere a Pointe du Lac?»
«Sì. Non potevo essere sicuro che m’avesse svelato tutto quel che dovevo sapere. E dovevamo continuare a fingere. Mia sorella si sposò in mia assenza, durante un mio ‘attacco di febbre malarica’, e un simile inconveniente mi mise fuori uso anche il mattino dei funerali di mia madre. Nel frattempo, io e Lestat ogni notte ci mettevamo a tavola col vecchio e facevamo rumore con il coltello e la forchetta, mentre lui ci diceva di non avanzare niente sul piatto e di non bere il vino troppo in fretta. Afflitto da numerosi e terribili mal di testa, solevo ricevere mia sorella e suo marito nella camera da letto semibuia, con le coperte fino al mento, invitandoli a portare pazienza per la luce fioca che il mio male agli occhi mi imponeva, e intanto affidavo loro grandi quantità di denaro da investire per tutti noi. Fortunatamente il marito di mia sorella era un idiota, innocuo, ma pur sempre un idiota, il frutto di quattro generazioni di matrimoni tra cugini primi.
«Sebbene da questo lato le cose andassero lisce, cominciavamo ad avere dei problemi con gli schiavi. Erano tipi sospettosi; per di più, come t’ho accennato, Lestat uccideva indiscriminatamente tutti quelli che voleva. Perciò si parlava sempre di morti misteriose in quella parte della costa. Ma era soprattutto quello che vedevano di noi a far parlare gli schiavi; una sera, aggirandomi tra le loro baracche come un’ombra, li udii parlare.
«Innanzitutto ti devo spiegare il carattere di questi schiavi. Era circa il 1795; io e Lestat avevamo vissuto a Pointe du Lac relativamente in pace per quattro anni; con il denaro che lui procurava io avevo accresciuto le nostre terre e acquistato a New Orleans case e appartamenti che poi affittavo, mentre il lavoro della piantagione in sé produceva poco… era più una copertura per noi che un investimento. Ho detto ‘nostre’, ma è sbagliato. Non ho mai intestato nulla a Lestat e, come puoi immaginare, dal punto di vista legale ero ancora vivo. Ma nel 1795 gli schiavi non erano come quelli dei film o dei romanzi sul Sud. Non avevano la voce dolce, la pelle bruna rivestita di cenci grigiastri, e non parlavano un dialetto inglese: erano africani. O dominicani. Erano molto neri e completamente stranieri; parlavano le loro lingue africane e il dialetto francese; e quando cantavano, cantavano canzoni africane che rendevano i campi esotici e strani, una cosa che mi aveva sempre spaventato quando ero mortale. Erano superstiziosi, avevano i loro segreti e le loro tradizioni. Insomma, non erano stati ancora completamente distrutti in quanto africani. La schiavitù era la maledizione della loro esistenza; ma ancora non erano stati privati di ciò che era tipicamente loro. Tolleravano il battesimo e gli abiti modesti che la legge cattolica francese imponeva loro; ma alla sera trasformavano i loro tessuti da pochi soldi in costumi affascinanti, facevano gioielli con ossa di animali e scarti di metallo che lucidavano fino a farli sembrare d’oro; le baracche degli schiavi di Pointe du Lac, quando calavano le tenebre, diventavano una terra straniera, una costa africana, per la quale neppure il più freddo dei sorveglianti desiderava aggirarsi. Nulla da temere, naturalmente, per un vampiro.
«Perlomeno, fino a una sera d’estate, in cui, fingendomi un’ombra, udii attraverso le porte aperte una conversazione che mi convinse che Lestat e io eravamo in grave pericolo. Gli schiavi avevano ormai capito che non eravamo comuni mortali. Quasi bisbigliando, le cameriere raccontarono come, attraverso una fessura della porta, ci avessero visto cenare con argenteria vuota su piatti vuoti, portando alle labbra bicchieri vuoti, ridendo, con volti sbiancati e spettrali al lume di candela, il vecchio ridotto a un idiota indifeso in nostro potere. Attraverso le serrature avevano visto la bara di Lestat, e una volta lui aveva battuto spietatamente uno di loro, sorpreso a ciondolare vicino alle finestre della sua stanza che davano sulla veranda. ‘Non c’è nessun letto là dentro’ si confidarono e accennando col capo. ‘Dorme nella bara, lo so’. Erano giunti alla convinzione, quanto mai fondata, che noi fossimo quello che eravamo. Quanto a me, mi avevano visto, sera dopo sera, uscire dalla cappella, ormai poco più che una massa informe di mattoni e di rampicanti, ricoperta da strati di glicine in fiore in primavera, di rose selvatiche d’estate, col muschio rilucente sulle vecchie imposte ormai prive di vernice, mai aperte, e i ragni che roteavano sotto gli archi di pietra. Naturalmente, io fingevo di visitarla in memoria di Paul, ma era chiaro dai loro discorsi che non credevano più a quelle menzogne. E ora ci attribuivano non solo le morti degli schiavi trovati nei campi e nelle paludi e anche del bestiame e di qualche sporadico cavallo, ma tutti gli altri eventi misteriosi; anche le inondazioni e i tuoni erano le armi di Dio in una battaglia personale ingaggiata contro Louis e Lestat. Ma c’era di peggio: questi schiavi non avevano nessuna intenzione di scappare. Noi eravamo dei diavoli, non si poteva sfuggire al nostro potere. No, era necessario distruggerci. E a questa riunione, alla quale partecipai non visto, c’erano parecchi schiavi di Frenière.
«Ciò significava che la voce si sarebbe diffusa per tutta la costa. E sebbene io fossi fermamente convinto che la costa fosse impermeabile a un’ondata di isteria, non intendevo correre il rischio di attirare l’attenzione, di qualunque tipo fosse. Ritornai precipitosamente a casa per comunicare a Lestat che il gioco era finito. Doveva dire addio alla frusta da schiavista e al porta-tovagliolo d’oro e trasferirsi in città.
«Naturalmente fece resistenza. Suo padre era gravemente ammalato e poteva anche morire. Non aveva alcuna intenzione di scappare da quegli stupidi schiavi. ‘Li ucciderò tutti’ disse calmo, ‘a tre, quattro alla volta. Se qualcuno scapperà, tanto meglio’.
«‘Sei pazzo. Io voglio che tu sparisca’.
«‘Tu vuoi che io sparisca! Tu!’ sghignazzò. Stava costruendo un castello di carte sulla tavola da pranzo con delle bellissime carte francesi. ‘Tu codardo piagnucoloso d’un vampiro, che strisci di notte per i vicoli a caccia di gatti e di topi, che fissi le candele per ore come se fossero persone e stai sotto la pioggia come uno zombi finché non hai i vestiti fradici, puzzi come quei vecchi bauli dei solai e sembri un idiota allo zoo’.
«‘Non hai più niente da insegnarmi e il tuo comportamento sconsiderato ci ha messo in pericolo entrambi. Io posso vivere da solo in quella cappella mentre questa casa cade in rovina. A me non importa!’ gli dissi. Ed era vero. ‘Tu invece devi avere tutte le cose che non hai mai avuto in vita e fai diventare l’immortalità un negozio di rigattiere, in cui siamo tutt’e due grotteschi. Adesso vai da tuo padre e dimmi quanto tempo gli resta da vivere, perché quello è il tempo che rimarrai ancora qui, sempre che gli schiavi non si sollevino contro di noi’.
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