Anne Rice - Intervista col vampiro
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- Название:Intervista col vampiro
- Автор:
- Издательство:Salani
- Жанр:
- Год:1977
- Город:Firenze
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«Fermò Lestat appena in tempo» mormorò il ragazzo.
«Sì. Lestat era capace di uccidere e bere in un baleno. Ma riuscii a salvare unicamente la vita fisica di Babette. L’avrei scoperto solo molto tempo dopo».
«In un’ora e mezzo Lestat e io arrivammo a New Orleans; i cavalli erano quasi morti dalla stanchezza; fermammo la carrozza in una strada laterale, a un isolato di distanza da un nuovo albergo spagnolo. Lestat prese un vecchio per un braccio e gli mise in mano cinquanta dollari. ‘Trovaci una suite’ comandò, ‘e ordina champagne. Di’ che è per due gentiluomini e paga in anticipo. Quando torni ne avrai altri cinquanta per te. Ma attento, ti terrò d’occhio’. I suoi occhi brillanti soggiogarono l’uomo. Sapevo che l’avrebbe ucciso non appena quello fosse ritornato con le chiavi della stanza; e infatti così fece. Sedevo nella carrozza guardando stancamente l’uomo diventare sempre più debole e finalmente morire; il suo corpo crollò come un sacco di pietre quando Lestat lo lasciò andare. ‘Buona notte, dolce principe’ disse Lestat, ‘ed ecco i tuoi cinquanta dollari’. Gli ficcò il denaro in tasca come se fosse stato uno scherzo straordinario.
«Ci infilammo per le porte del cortile dell’albergo e salimmo nel lussuoso salotto del nostro appartamento. Lo champagne scintillava nel secchiello gelato. Due bicchieri stavano sul vassoio d’argento. Sapevo che Lestat ne avrebbe riempito uno e si sarebbe seduto a contemplarne il tenue colore paglierino. E io, come in trance, giacevo sul sofà pensando che non m’importava nulla di quel che Lestat poteva fare. Devo abbandonarlo o morire, pensavo. Sarebbe dolce morire. Sì, morire. Volevo morire prima e lo volevo anche adesso. Lo vedevo con una chiarezza così dolce, una calma così assoluta!
«‘Tu sei malato!’ sbottò Lestat improvvisamente. ‘È quasi l’alba’. Scostò le tende di pizzo e io vidi le cime dei tetti sotto il cielo azzurro cupo, e sopra la costellazione di Orione. ‘Va’ a uccidere!’ mi intimò Lestat sollevando il bicchiere. Scavalcò il davanzale, e udii i suoi piedi atterrare dolcemente sul tetto accanto all’albergo. Stava andando a prendere le bare, o perlomeno una. La sete cresceva in me come febbre e lo seguii. Il mio desiderio di morire era costante, come un puro pensiero della mente, svuotato d’emozione. Eppure avevo bisogno di nutrirmi. Come t’ho detto, allora non uccidevo le persone. Camminai per i tetti in cerca di topi».
«Ma perché… ha detto che Lestat non avrebbe dovuto farla cominciare con le persone. Voleva dire… vuol dire che per lei era una scelta estetica, non morale?»
«Me l’avessi chiesto allora, t’avrei detto che era estetica, che desideravo comprendere la morte per stadi successivi. Che la morte d’un animale mi procurava un tale piacere e una tale esperienza che avevo appena cominciato a capirla, e desideravo serbare l’esperienza della morte umana per una comprensione più matura. Ma era morale, perché tutte le decisioni estetiche sono morali, in realtà».
«Non capisco» disse il ragazzo. «Pensavo che le decisioni estetiche potessero essere completamente immorali. Come la mettiamo col cliché dell’artista che abbandona moglie e figli per poter dipingere? O con Nerone che suona l’arpa mentre Roma brucia?»
«Entrambe sono decisioni morali, al servizio d’un bene superiore, nella mente dell’artista. Il conflitto è tra la morale dell’artista e la morale della società, non tra l’estetica e la morale. Ma spesso non lo si comprende; e questa è la rovina, la tragedia. Un artista che ruba dei colori in un negozio, per esempio, crede di aver preso una decisione inevitabile ma immorale, e si vede come decaduto dalla grazia; ne segue disperazione e meschina irresponsabilità, come se la moralità fosse un grande mondo di vetro che con una sola azione si può frantumare irrimediabilmente. Ma allora la questione non mi preoccupava granché: allora ignoravo queste cose. Credevo di uccidere gli animali soltanto per ragioni estetiche e cercavo di eludere il grande interrogativo morale: se io, per la mia stessa natura, fossi o non fossi dannato.
«Perché vedi, anche se Lestat non mi aveva mai detto niente sui diavoli o sull’inferno, io credevo d’essermi dannato quando ero passato dalla sua parte, come deve aver pensato Giuda quando si mise il cappio al collo. Capisci?»
Il ragazzo non disse nulla. Fece per parlare ma si fermò. Per un istante chiazze di colore divamparono sulle sue guance.
«E lo era?» sussurrò.
Il vampiro restò immobile, sorridendo: un tenue sorriso che giocava sulle sue labbra come la luce. Il ragazzo lo stava fissando come se lo vedesse per la prima volta.
«Forse…» rispose il vampiro raddrizzandosi e accavallando le gambe «…dovremmo affrontare le cose una alla volta. Forse dovrei continuare con la mia storia».
«Sì, la prego…»
«Come t’ho detto, quella notte ero agitato. Avevo cercato di eludere questo problema e ora ne ero completamente sopraffatto, e in quello stato non avevo alcun desiderio di vivere. Ebbene, questo produceva in me, come negli esseri umani a volte, un desiderio ardente di soddisfare almeno il bisogno fisico. Credo d’averlo usato come pretesto. T’ho detto cosa significa uccidere per i vampiri; puoi immaginarti la differenza tra un topo e un uomo.
«Scesi in strada dietro a Lestat e camminai per parecchi isolati. A quel tempo le strade erano fangose, i casamenti come isole sopra i canali di scolo, e tutta la città era estremamente buia paragonata alle città d’oggi. Le luci sembravano fari in un mare nero. Anche con l’avvicinarsi del mattino, solo gli abbaini e le verande ai piani superiori emergevano dal buio, e per un mortale i vicoli che percorrevo erano neri come la pece. Sono dannato? Vengo dal demonio? La mia vera natura è quella d’un diavolo? continuavo a chiedermi. E se è così, perché ribellarmi all’idea, tremare quando Babette mi scaglia addosso una lanterna fiammeggiante, allontanarmi disgustato quando Lestat uccide? Cosa sono diventato, diventando un vampiro? Dove devo andare? E intanto, mentre il desiderio di morire mi faceva trascurare la sete, sentivo bruciarmi dentro la voglia di bere; le vene pulsavano come fili di dolore nella mia carne; le tempie mi battevano; e alla fine non potei più sopportarlo. Lacerato dal desiderio di restare inerte, di lasciarmi morire di fame, di languire nei pensieri, da una parte; e spinto dall’impulso a uccidere dall’altra, mi ritrovai in una strada vuota e desolata e udii un pianto di bimba.
«Veniva dall’interno di una casa. M’avvicinai alle pareti, cercando, nel mio consueto distacco, di capire perché piangesse. Era stanca, indolenzita e disperatamente sola. Ormai piangeva da così tanto tempo, che presto avrebbe smesso per puro e semplice sfinimento. Feci scorrere una mano verso l’alto passandola sotto la pesante imposta di legno e tirai, finché si sfilò la spranga. La bambina era seduta nella stanza buia accanto a una donna morta, morta da giorni. La stanza era ingombra di bauli e di pacchi, come se diverse persone avessero preparato i bagagli per partire; ma la madre giaceva mezzo svestita, il corpo già in putrefazione, e non c’era nessuno al di fuori della bambina. Prima che s’accorgesse di me passarono alcuni istanti; ma quando mi notò mi disse subito che dovevo fare qualcosa per aiutare sua madre. Avrà avuto cinque anni al massimo, molto magra, e il suo viso era macchiato di sporco e lacrime. M’implorava d’aiutarla. Dovevano prendere una nave, mi disse, prima che venisse la peste; il padre le aspettava. Cominciò a scuotere la madre e a piangere disperatamente; poi mi guardò di nuovo e scoppiò in un diluvio di lacrime.
«Ormai il bisogno di bere mi divorava. Non ce l’avrei fatta a stare un altro giorno senza nutrirmi. Ma c’erano delle alternative: le strade abbondavano di topi e da qualche parte, molto vicino, un cane ululava disperatamente. Se avessi voluto, avrei potuto volar via dalla stanza, nutrirmi e tornare al più presto. Ma la domanda: ‘Sono dannato?’ mi martellava dentro. E allora perché provo tanta pietà per lei, per il suo viso sparuto? Perché desidero toccare le sue piccole, morbide braccia, tenerla adesso sulle ginocchia, come sto facendo, sentirla reclinare la testa sul mio petto mentre le sfioro piano questi capelli di seta? Perché? Se sono dannato devo volerla uccidere, devo voler fare di lei nient’altro che cibo per un’esistenza maledetta, perché essendo dannato devo odiarla.
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