Anne Rice - Intervista col vampiro
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- Название:Intervista col vampiro
- Автор:
- Издательство:Salani
- Жанр:
- Год:1977
- Город:Firenze
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«‘Ora non posso darvi queste risposte’ le dissi. ‘Credetemi quando vi dico che venni da voi solo per aiutarvi. E se avessi avuto un’altra scelta, ieri notte non sarei mai venuto a recarvi preoccupazioni e affanni, per nulla al mondo!’».
Il vampiro si fermò.
Il ragazzo si protese in avanti sulla sedia, con gli occhi sgranati. Il vampiro sembrava di ghiaccio, guardava lontano, perduto nei pensieri, nei ricordi. Il ragazzo abbassò subito lo sguardo, come se fosse la maniera più educata di comportarsi. Di nuovo lanciò un’occhiata al vampiro, poi distolse lo sguardo, il volto turbato quanto quello del vampiro; poi cominciò a dire qualcosa, ma si fermò.
Il vampiro si voltò verso di lui e lo studiò, così che il ragazzo arrossendo distolse ancora lo sguardo, inquieto. Ma poi rialzò il viso e guardò il vampiro negli occhi. Deglutì, ma sostenne lo sguardo indagatore del vampiro.
«È questo che vuoi?» sussurrò il vampiro. «È questo che volevi sentire?»
Spostò indietro la sedia senza rumore e andò alla finestra. Il ragazzo sedeva come stordito, fissando quelle larghe spalle e il lungo mantello. Il vampiro voltò appena la testa. «Non m’hai risposto. Non è questo che volevi, vero? Volevi un’intervista. Qualcosa da trasmettere alla radio».
«Non importa. Se vuole, butterò via i nastri!» Il ragazzo si alzò. «Non posso dire di capire tutto quello che mi dice. Sa che mentirei se glielo dicessi. Perciò come posso chiederle di continuare, se non dicendo che quello che invece capisco… non somiglia a nessuna delle cose che posso dire d’aver capito finora». Fece un passo verso il vampiro. Il vampiro guardava giù in Divisadero Street. Poi lentamente voltò la testa, guardò il ragazzo e sorrise. La sua espressione era serena, quasi affettuosa. E improvvisamente il ragazzo si sentì a disagio. Si cacciò le mani in tasca e si girò verso il tavolo. Poi esitando guardò il vampiro e mormorò: «Per favore, potrebbe… continuare?»
Il vampiro si voltò, le braccia incrociate, e si appoggiò alla finestra. «Perché?» domandò.
Il ragazzo era perplesso. «Perché voglio sentire la storia». Si strinse nelle spalle. «Perché voglio sapere cos’è successo».
«D’accordo» rispose il vampiro, con lo stesso sorriso sulle labbra. Ritornò alla sedia, si sedette di fronte al ragazzo e spostò appena il registratore. «Gran bella macchinetta davvero» commentò. «Allora, fammi continuare.
«Quel che provavo in quel momento per Babette era un desiderio di comunicare, più forte d’ogni altro bisogno provato allora… tranne quello fisico del… sangue. Era così forte, che mi resi conto di quanto era profonda la mia solitudine. Prima, quando le avevo parlato, c’era stata un’intesa breve ma forte, semplice e piacevole come prendere la mano di una persona. Stringerla. Lasciarla andare teneramente. Tutto questo in un momento d’estremo bisogno e di pericolo. Ora invece eravamo ai ferri corti. Per Babette, io ero un mostro; e io avrei fatto qualunque cosa per sconfiggere quel suo sentimento. Il consiglio che allora le avevo dato era giusto, le dissi, e nessuno strumento del demonio poteva fare il bene, anche se l’avesse voluto.
«‘Lo so!’ mi rispose. Ma con questo voleva dire che non poteva fidarsi di me più che del diavolo in persona. Feci per avvicinarmi, ma lei arretrò. Sollevai una mano e Babette si ritrasse, aggrappandosi alla ringhiera. ‘Va bene, allora’ le dissi, terribilmente esasperato. ‘Perché ieri notte mi avete aiutato? Perché siete venuta da me sola?’ Vidi sul suo volto come un lampo di astuzia. Una ragione c’era, ma non me l’avrebbe mai rivelata. Le era impossibile parlarmi liberamente, apertamente, comunicare con me come avrei desiderato. Mi sentivo stanco. Già era tarda notte, e da quel che vedevo e sentivo, Lestat era entrato nella cantina e aveva preso le nostre bare; avevo bisogno di andarmene, e anche bisogno di uccidere e di bere. Ma non era questo che mi rendeva esausto. Era qualcos’altro, qualcosa di molto peggio. Era come se quella notte fosse stata soltanto una di mille e mille notti, in un mondo senza fine, una notte che si curvava in un’altra notte, descrivendo un grande arco di cui non potevo scorgere la fine, una notte in cui vagavo solo sotto un gelido, indifferente firmamento. Credo d’essermi allontanato da lei e di essermi coperto gli occhi con le mani. Improvvisamente mi sentivo oppresso e debole. Credo d’aver emesso, involontariamente, dei lamenti. Poi, in questo vasto e desolato paesaggio notturno, dov’ero solo e dove Babette era soltanto un’illusione, vidi d’un tratto una possibilità mai considerata prima, una possibilità dalla quale ero fuggito, assorto com’ero nella percezione del mondo, calato nei sensi del vampiro, innamorato del colore, della forma, del suono, dei canti, della dolcezza e dell’infinita variazione. Babette si muoveva ma io non ci facevo caso. Prese qualcosa dalla tasca; il grande anello delle chiavi tintinnò. Salì i gradini. Lasciamola andare, pensai. ‘Creatura del demonio!’ sussurrai. ‘ Vade retro Satana ’ ripetei. Poi mi voltai per guardarla. Era impietrita sui gradini, con gli occhi spalancati, pieni di sospetto. Prese la lanterna appesa al muro, e la tenne in mano guardandomi fissamente; la teneva stretta, come un prezioso borsellino. ‘Pensate che sia mandato dal demonio?’ le domandai.
«Fece scorrere rapidamente le dita della mano sinistra attorno al gancio della lanterna, e con la destra fece il segno della croce, pronunciando parole latine che udii a malapena; ma il suo viso sbiancò e le sopracciglia s’inarcarono quando s’accorse di non aver prodotto alcun effetto. ‘Vi aspettavate che svanissi in una nuvoletta di fumo?’ le chiesi. Mi avvicinai a lei, perché con la forza del pensiero avevo realizzato il necessario distacco nei suoi confronti. ‘E dove andrei?’ le chiesi. ‘Dove andrei? All’inferno, da dove sono venuto? Dal diavolo, che mi ha mandato?’ Mi fermai ai piedi della scala. ‘E se vi dicessi che non so nulla del diavolo, che non so neppure se esiste?’ Era il diavolo che avevo visto allora nel paesaggio dei miei pensieri; era il diavolo a cui pensavo in quel momento. M’allontanai da lei. Non mi sentiva come fai tu adesso. Non mi ascoltava. Alzai gli occhi alle stelle. Lestat era pronto, lo sapevo. Era come se fosse stato pronto con le carrozze, in quel posto, da anni; e da anni Babette fosse stata in piedi sulle scale. D’improvviso ebbi la sensazione che ci fosse mio fratello, lui pure da secoli, e che mi parlasse piano con voce concitata, e che le cose che mi diceva fossero disperatamente importanti, ma si allontanassero alla stessa velocità con cui venivano dette, come il fruscio di topi nelle travi d’una casa immensa. Ci fu un suono stridulo e un’esplosione di luce. ‘Io non so se vengo dal demonio o no! Io non so cosa sono!’ gridai a Babette, con voce assordante per le mie sensibili orecchie. ‘Dovrò vivere fino alla fine del mondo, e non so neppure che cosa sono!’ Ma la luce balenò davanti a me: era la lanterna che Babette aveva acceso con un fiammifero e che ora reggeva in modo da non permettermi di guardarle il viso. Per un momento vidi solo luce, poi il grande peso della lanterna mi colpì a tutta forza nel petto, il vetro si fracassò sui mattoni, e le fiamme mi balzarono sulle gambe e sul viso. Lestat gridò dal buio: ‘Spegnilo, spegnilo, idiota! Ti distruggerà!’ Sentii qualcosa che mi fustigava forsennatamente. Era la giacca di Lestat. Ero caduto indietro, contro il pilastro, inerme sia per il fuoco e il colpo sia per la consapevolezza che Babette voleva distruggermi, e perché m’ero reso conto di non sapere che cos’ero.
«Tutto ciò accadde nel giro di pochi secondi. Il fuoco era ormai spento. M’inginocchiai nel buio con le mani sui mattoni. Lestat in cima alle scale aveva preso di nuovo Babette: mi gettai su di lui, agguantandolo per il collo e tirandolo indietro. Mi si rivoltò contro, infuriato, e mi prese a calci, ma io m’aggrappai a lui e lo tirai giù, sopra di me, fino all’ultimo gradino. Babette era impietrita. Vidi la sua sagoma scura contro il cielo e il riflesso della luce nei suoi occhi. ‘Muoviti, allora’ ringhiò Lestat, tirandosi in piedi. Babette si portava la mano alla gola. I miei occhi offesi si sforzavano di raccogliere la luce per vederla. La sua gola sanguinava. ‘Ricordatevi!’ le dissi. ‘Avrei potuto uccidervi o lasciare che vi uccidesse, ma non l’ho fatto. M’avete chiamato demonio! Avete torto’».
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