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Richard Matheson: Appuntamento nel tempo

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Richard Matheson Appuntamento nel tempo

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Innamorato di una donna vissuta molto tempo prima, il protagonista di questo libro straordinario comincia a studiarne i ritratti, la carriera, l’ambiente. Finché l’ossessione lo porta a tentare di raggiungere la misteriosa attrice… nel passato. Ma è solo l’inizio dell’avventura. Da questo grande romanzo è stato tratto un film con Christopher Reeve.

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Mentre mi toglievo la giacca, ho fissato la porta. Robinson non aveva fatto irruzione, e non stava nemmeno bussando all’impazzata. Perché? Perché sapeva come avrebbe reagito Elise? All’improvviso, le mie dita hanno incontrato un oggetto duro, circolare, sotto la tasca destra della giacca. “Un buco”, ho pensato. Una delle monete che il commesso dell’emporio mi aveva dato di resto era caduta nella fodera.

Sapevo che non era importante. Quest’idea mi perseguiterà sino alla fine dei miei giorni. Eppure, qualcosa mi ha spinto a infilare la mano in tasca, tastare con dita tremanti fino a trovare il buco, e poi, con l’aiuto dell’altra mano, far risalire la moneta dalla fodera. Le mie dita l’hanno toccata. L’ho tirata fuori e l’ho guardata.

Era un penny del 1971.

In quell’istante, una cosa oscura e orribile ha cominciato a crescere dentro me. Ho intuito di cosa si trattasse e ho tentato di gettare via il penny, ma sembrava dotato di un mostruoso magnetismo. Non riuscivo a staccarlo dalla mia pelle. L’ho fissato con crescente terrore. Come in un incubo, la moneta aderiva alle mie dita, e io non potevo liberarmene. Ho preso a tremare e boccheggiare. Una nube di sussultante gelo mi ha avvolto. Il mio cuore batteva lento. Ho cercato inutilmente di urlare; ogni suono era chiuso, paralizzato nella mia gola. Ho gridato, ma solo con la mente.

Non potevo fare nulla. Era quello il lato più atroce. Ero impotente. E sapevo, nel mio muto terrore, che qualcosa stava lacerando i tessuti connettivi, per strapparmi al 1896 e a lei. Ho tentato, con tutta la mia forza di volontà, di staccare gli occhi dai numeri incisi sul penny, ma mi era impossibile. Pulsavano, si infiltravano nei miei occhi e nel cervello come onde di energia negativa. “1971. 1971”. La mia presa ha cominciato a diminuire. “No”, ho implorato, paralizzato da una folle angoscia. “No, ti prego, no!” Ma chi poteva udirmi? Ero arrivato lì grazie a un poderoso sforzo di concentrazione mentale, e adesso, in una rapida successione di momenti infernali, mi obbligavo a tornare indietro fissando quel numero. “1971. 1971”. Disperatamente, ho tentato di costringermi a ricordare che mi trovavo nel 1896, che era il 21 novembre del 1896. Ma non potevo trattenere quella consapevolezza, in alcun modo. Non con quel penny incollato alle mie dita, col suo potere che insinuava l’altro anno nella mia coscienza. “1971. 1971. 1971. Perché non riesco a liberarmene? Non voglio tornare indietro! Non voglio!”

Adesso, una tenebra vibrante mi circondava come una nube di vapore. Paralizzato, fatto di pietra, a stento sono riuscito a girare la testa verso il letto. “No! Dio, no!” Quasi non la vedevo più! Elise era una figura vista attraverso un banco di nebbia. Un gemito di angoscia mi è risuonato in petto. Ho tentato di spostarmi, di andare da lei, ma non potevo muovermi; un peso oscuro e mostruoso mi teneva ancorato in quel punto. “No!” Ho cercato di scrollarlo via. Non avrei permesso che mi strappassero da Elise. Con ogni briciola di forza che ancora mi restava, ho riprovato a liberarmi di quella moneta maligna. Non era il 1971. Era il 1896. Il 1896!

Inutile. Il penny è rimasto sulla mia pelle come una mostruosa escrescenza. Sconfitto, ho riportato il mio sguardo affranto su lei. Un urlo di terrore mi ha straziato l’anima. Elise era quasi svanita nell’oscurità che turbinava attorno a me, che mi stava risucchiando nel suo vuoto. Non capirò mai perché, ma in quel momento mi è tornato il ricordo di ciò che mi aveva detto una donna spiegandomi i sintomi dell’arrivo di un collasso nervoso. Me lo aveva descritto come “qualcosa che ti cresce dentro; qualcosa che ignora la ragione e la forza di volontà; qualcosa di buio e irrequieto che si espande in continuazione, ed è come avere dentro un ragno che tesse una terribile, gelida ragnatela, destinata ad avviluppare cervello e corpo.” Era esattamente quello che provavo io: immobile, impotente, aspettavo; lo sentivo crescere dentro me in maniera inesorabile, e sapevo di non poterlo fermare.

Ho aperto gli occhi. Ero coricato sul pavimento. Da fuori mi giungeva il rombo lontano della risacca.

Mi sono lentamente rizzato a sedere e ho scrutato la stanza buia che, un tempo, era stata di Elise. Il letto era vuoto. Febbricitante, mi sono alzato e ho guardato la mia mano destra. Il penny era ancora lì. Con un urlo di repulsione, l’ho scaraventato via, l’ho sentito rimbalzare a terra. “Adesso mi liberi della tua presenza!” ho pensato, con stupefatto odio. “Adesso che mi hai costretto a tornare”.

Non so per quanto tempo sono rimasto lì, senza più vita, senza più forza di volontà. Potrebbero essere state ore, anche se sospetto che in realtà non siano trascorsi più di dieci o quindici minuti. Alla fine, ho attraversato la stanza a passi di piombo, ho aperto la porta, e sono uscito in corridoio. Non c’era nessuno. Mi sono guardato e ho visto il vestito. Ho rabbrividito. “Il costume, vorrai dire”, mi ha corretto la mente, amara.

Mentre mi incamminavo, riuscivo solo a pensare che avevo perso Elise per uno stupidissimo penny che si era infilato nella fodera della giacca. Ero riuscito a vincere tutti gli altri shock; ma alla fine, il penny mi aveva costretto a tornare. Come una macchina rallentata, difettosa, il mio cervello continuava a rivedere quell’unico particolare, a tentare di analizzarne l’orrore. Il penny non era mio; ovviamente, doveva essere dell’uomo che aveva noleggiato il costume prima di me. E per colpa “di una cosa del genere”, di una cosa del genere!, avevo perso Elise. Ero con lei solo pochi minuti prima; avevo ancora addosso la sensazione e il profumo del suo corpo. Se fossi rimasto a letto con lei, non sarebbe successo. Cercando di rafforzare la mia presa sul 1896, l’avevo persa completamente. E tutto per colpa di un penny scivolato nella fodera di una giacca. La mia mente barcollava all’infinito su quel fatto, ma senza trarne alcun risultato. Non ero in grado di capire.

Non capirò mai.

Avevo raggiunto la mia stanza, la mia stanza del 1971, prima di ricordare che non avevo una chiave per aprire la porta. Ho fissato quella porta a lungo. L’esperienza di venire risucchiato nel 1971 mi aveva privato di ogni facoltà mentale. Ho impiegato parecchio tempo a racimolare scarni brandelli di informazioni, tanto da arrivare a decidere che dovevo ridiscendere. Sapevo di non potermi presentare al bureau. Non ero in grado di parlare, di spiegare; non funzionavo più come individuo pensante. Ero stordito e vuoto. Ho sceso le scale e mi sono diretto alla porta sul retro. Pochi minuti prima, ero con lei. Eppure adesso erano passati settantacinque anni. Elise era morta.

Ed ero morto anch’io Quello lo capivo. Sono uscito dall’hotel. Pensavo di buttarmi nell’oceano, affogarmi, distruggere il corpo come era stata distrutta la mente. Ma non ne avevo la forza, la volontà. Mi sono aggirato nel parcheggio senza una meta. La pioggia era così rada che quasi non sentivo le gocce sul viso; sembrava più nebbia che pioggia.

Mi sono fermato davanti a un’automobile e l’ho guardata a lungo prima di rendermi conto che era la mia. Ho frugato nelle tasche con dita intorpidite. Alla fine ho capito che non potevo avere le chiavi in tasca. Mi sono inginocchiato, ho teso un braccio sotto l’auto, e dopo un po’ la mia mano è entrata in contatto con la scatoletta di metallo magnetizzato. L’ho staccata dal pianale, mi sono aggrappato alla maniglia per tirarmi su. I calzoni erano inzuppati di pioggia e fango all’altezza d’elle ginocchia, ma non me ne importava niente. Con movimenti lenti, ho sollevato il coperchio della scatola e ho preso le chiavi.

L’auto era fredda; i finestrini, coperti di vapore. Ho tastato alla cieca con la chiave finché non sono riuscito a infilarla nella fessura dell’accensione. Ho fatto per girarla, poi mi sono abbandonato sul sedile, esausto. Non avevo la forza per guidare fino al ponte e buttarmi giù. Non avevo la forza per uscire dal parcheggio, nemmeno la forza di accendere il motore. Ho lasciato cadere la testa in avanti, ho chiuso gli occhi. “L’ho fatto”, ho pensato. La frase si è ripetuta all’infinito nella mia mente, consapevolezza dolorosa, interminabile. “L’ho fatto”. Ciò che avevo letto in quei libri era vero. “L’ho fatto”. Non era più necessario riscrivere nessuno di quei volumi. “L’ho fatto”. Ciò che avevo temuto di fare sin dall’inizio. Ciò che avevo giurato di non fare mai. “L’ho fatto”. Le avevo aperto il cuore solo per spezzarlo.

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