«Ora la sento… sento che cerca di farmi uscire da me stessa… sta penetrando in me… Nooo!» Tansy gridò. «No, non puoi farmelo fare… io non voglio… non voglio !»
Prima che se ne rendesse conto, sua moglie era caduta in ginocchio, si aggrappava alle sue gambe, gli stringeva le mani. «Non lasciare che quella donna mi tocchi, Norman» balbettava come un bambino terrorizzato. «Non lasciare che mi venga vicino. »
«Non temere, non la lascerò avvicinare…» disse finalmente sveglio.
«Oh, ma tu non la puoi fermare… sta venendo qui… col suo stesso corpo. Vedi che non ha paura di te? Viene per portarmi via l’anima un’altra volta. Io non ti posso dire ciò che vuole, è una cosa troppo ripugnante.»
L’afferrò alle spalle. «Tu me lo devi dire» le disse. «Di che si tratta?»
Lentamente alzò il suo viso sbiancato, impaurito, e i suoi occhi guardarono negli occhi di Norman e non li abbandonarono neppure un secondo mentre gli parlava. «Lo sai che la signora Carr ti ama, Norman. Tu conosci i suoi modi ridicolmente giovanili. Sai che vuol sempre avere gente giovane intorno a sé, che si nutre dei loro sentimenti, della loro innocenza, dei loro entusiasmi. Norman, l’appetito della signora Carr per tutto ciò che è giovane è stato per anni e anni la sua passione dominante. Ha respinto la vecchiaia e la morte per molto tempo, più tempo di quanto tu possa immaginare. È più vicina ai novanta che ai settanta, ma inesorabilmente, la marcia del tempo incombe su di lei. Non è la morte di cui ha paura, ma farebbe qualsiasi cosa, capisci, qualsiasi cosa, Norman, per possedere un corpo giovane.
“Non lo vedi, Norman? Le altre due volevano la mia anima, ma questa vuole il mio corpo. Non hai mai notato il modo in cui ti guarda? Ti desidera, Norman, quella vecchia megera, desidera te e vuole amarti fisicamente impossessandosi del mio corpo. Vuol possedere il mio corpo e intrappolare la mia anima in quel vecchio manico di scopa: questo è il suo vero corpo, far morire la mia anima in quel corpo ignobile, in quella sozza carne. Ed ora viene qui, sta venendo qui adesso.»
Guardò con profondo orrore i suoi occhi terrorizzati, fissi, quasi ipnotici.
«La devi fermare, Norman, la devi fermare nell’unico modo in cui si possa fermare.» E senza staccare gli occhi da quelli del marito, Tansy si alzò e uscì a ritroso dalla stanza.
C’era effettivamente qualcosa di ipnotizzante, nei suoi occhi, uno strano effetto del suo terrore, perché parve a Norman che appena uscita dalla stanza essa fosse già di ritorno al suo fianco e gli metteva in mano qualcosa di freddo, di duro e di angoloso.
«Dovrai fare molto presto» stava dicendo «se tu esiti per il minimo istante, le darai l’occasione anche breve di fissarti con i suoi occhi e sarai perduto… ed io sarò perduta per sempre. Lo sai come fa il cobra, che sputa veleno negli occhi delle sue vittime… ebbene è così. Sii pronto, Norman, è molto vicina.»
Si udirono dei passi affrettati nel vialetto del giardino, la porta d’ingresso si aprì di colpo: Tansy si spinse contro suo marito, così vicina da sentire sul petto i suoi seni. Le sue labbra umide cercarono le sue. Le restituì il bacio quasi brutalmente. Lei sussurrò: «Fa’ presto, tesoro» e poi scappò.
I suoi passi erano ora nel corridoio, Norman alzò la rivoltella. Si avvide allora che la camera da letto era immersa in una strana, non naturale oscurità. Tansy aveva chiuso le tende. La porta della camera da letto si aprì verso l’interno. Una forma sottile, in abito di seta grigia, si profilò contro la luce del corridoio. Oltre la canna della rivoltella egli vide il viso appassito, le lenti spesse. Le sue dita erano sul grilletto.
La testa dai capelli d’argento si scosse.
«Presto, Norman, presto!» La voce era vicino a lui, nervosa.
La figura in grigio nel vano della porta non si mosse. La rivoltella oscillò, poi improvvisamente si girò fino a puntarsi sulla figura che gli stava vicino…
« Norman !»
Un venticello irrequieto agitava le foglie della quercia posta come una sentinella corpulenta a guardia della casa dei Carr.
Nell’oscurità generale, il bianco dei muri esterni, un bianco immacolato, così perfetto che i vicini dicevano ridendo che la vecchia signora Carr usciva ogni notte dal suo letto, quando tutti erano a dormire, e li lavava con un pennello dal manico lunghissimo. Dappertutto si aveva l’impressione di vecchiaia pulita, ordinata, sana. La casa aveva perfino un suo odore, come un vecchio cassettone nel quale un capitano dei tempi andati avesse trasportato spezie raffinate durante i suoi viaggi nei mari della Cina.
La facciata della casa guardava verso il campus. Le alunne la potevano vedere quando si recavano in aula, e ricordavano i pomeriggi trascorsi in quella casa, sedute ritte sulle sedie dure, sfoggiando i loro modi più raffinati, mentre un allegro fuoco di legna ardeva sugli alari di rame lucidissimi al centro di un grande camino bianco. La signora Carr era una donna così cara, nella sua severa ingenuità. Le si faceva credere ogni cosa, pensavano le ragazze. E raccontava le storie più strane, con dei particolari impossibili di cui non era neppure cosciente. E con il suo tè profumato di cannella serviva dei biscotti allo zenzero che erano una delizia.
Una luce si accese nell’atrio, producendo ombre strane sul legno intagliato dalla veranda. La porta bianca a sei pannelli si aprì sotto la luce dell’ingresso.
«Io vado, Flora» gridò il professor Carr. «Le tue compagne di bridge sono un po’ in ritardo, mi pare?»
«Non tarderanno» risuonò nell’atrio la voce argentina. «Ciao, Linthicum.»
Il professor Carr chiuse la porta. Che peccato non poter partecipare alla partita di bridge. Ma la tesi che il giovane Rayford stava per leggere sulla Teoria dei numeri primi, sarebbe stata indubbiamente interessante. Non si poteva avere tutto. I suoi passi risuonarono sulla ghiaia del vialetto fiancheggiato da una siepe bassa con piccoli fiori bianchi che parevano un merletto. I passi svanirono appena ebbe raggiunto il cemento del marciapiede.
Sul lato posteriore della casa una macchina si fermò. Poi si udì un rumore attutito, come di qualcosa che si trasporta, e poi dei passi lenti, pesanti. Una porta si aprì dietro la casa e per un attimo, nell’arco illuminato, apparve un uomo che portava sulla spalla un fagotto enorme che poteva sembrare il corpo fasciato di una donna, solo che un andirivieni strano come questo era impensabile in casa dei Carr, lo avrebbe confermato qualsiasi vicino. Poi la porta si chiuse, e per un altro po’ vi fu solo silenzio, mentre la brezza agitava le foglie della grande quercia.
Con un tremendo spreco di copertoni, una Studebaker nera frenò davanti al cancello. Ne uscì la signora Gunnison. «Spicciati, Evelyn» disse «ci hai fatto far tardi ancora una volta. Lo sai che le dà sui nervi.»
«Ho fatto più presto che potevo» rispose lamentosamente la sua compagna.
Appena la porta a sei pannelli si aprì, il profumo di spezie divenne tangibile.
«Venite tardi, carissime» disse la voce argentina e ridente. «Ma per questa volta vi perdono perché ho una sorpresa per voi. Entrate.»
Seguirono la fragile figura vestita di fruscianti sete sino al soggiorno. In piedi vicino al tavolino da gioco, con la sua tovaglia ricamata e due piatti di cristallo pieni di dolci, c’era Norman Saylor. La luce della lampada mista a quella del fuoco nel camino, illuminava il suo viso privo di espressione.
«Poiché Tansy non ha potuto venire» disse la signora Carr «Norman ha acconsentito a fare il quarto. Non è una bella sorpresa? Non è carino da parte del professor Saylor?»
La signora Gunnison parve fare appello a tutto il suo coraggio.
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