Con la mente confusa e tenebrosa come quella di un ipotetico primitivo antenato, Norman cercò di risolvere il problema, e a un tratto capì che cosa attendeva da lui quell’essere inumano.
Già sentiva che i suoi muscoli si intorpidivano mentre la spalla lanciava fitte dolorose man mano che tornava la sensibilità. Avrebbe fatto, presto o tardi, un movimento involontario. E a quel momento l’essere armato di attizzatoio gli sarebbe venuto addosso.
Allungò la mano con molta prudenza. Lentamente, molto lentamente, descrisse un cerchio finché trovò a tastoni un tavolino sul quale era posato un libro. Lo afferrò fra il pollice e le altre dita nel punto ove sporgeva dal tavolo, lo alzò e lo avvicinò a sé. I suoi muscoli tremavano per lo sforzo di mantenere un silenzio assoluto.
Con un gesto lento egli lanciò il libro verso il centro della stanza affinché colpisse il pavimento ad alcuni passi da lui. Quel suono ottenne immediatamente la risposta scontata. Attese mezzo secondo e si lanciò in avanti, tentando di immobilizzarla al tappeto. Ma la furbizia di quell’essere superava le previsioni di Norman. Le sue braccia si richiusero su un grosso cuscino che era stato scagliato verso il libro e fu solo per fortuna che si salvò dai colpi d’attizzatoio che gli piovevano intorno al capo.
Protese le mani ed afferrò alla cieca la sbarra di metallo. Ci fu un movimento di tira e molla per divincolarsi dalla sua presa. Poi Norman cadde all’indietro con l’attizzatoio in mano, mentre i passi si allontanavano verso la parte posteriore della casa.
Egli la seguì in cucina. Un cassetto tirato con troppa energia cadde in terra ed egli udì il rumore agghiacciante di posate e di coltelli mossi.
Ma in cucina la luce era sufficiente a indicare la sagoma di lei. Balzò sulla mano alzata che brandiva il lungo coltello, la strinse al polso. Lei si buttò su di lui e caddero insieme sul pavimento.
Egli sentì contro di sé il calore del suo corpo, animato da furore omicida sino al limite estremo della sua forza. Per un attimo sentì il freddo della lama sulla sua guancia e allontanò con forza l’arma da sé. Piegò le gambe verso lo stomaco per difendersi dai colpi delle sue ginocchia. Lei allora si avventò su di lui convulsamente, e le sue mascelle gli si strinsero sul braccio che teneva lontano il coltello. I denti cercavano con un movimento a sega di penetrare nella stoffa della giacca. Il tessuto si strappò ed egli cercò con la mano libera di allontanare da sé quel corpo. Poi trovò i capelli, le tirò indietro la testa e lei abbandonò il morso. Il coltello cadde a terra e lei si mise a graffiargli il viso. Norman afferrò le dita che cercavano gli occhi, le narici. L’essere innominabile urlò e gli sputò sul viso. Con pressione costante egli piegò le sue braccia fin dietro la schiena di lei, e con sforzo supremo si mise in ginocchio. Urli soffocati, rabbiosi, uscivano da quella gola.
Fin troppo conscio dello sfinimento e del tremore che stava per sopraffare i suoi muscoli, cambiò presa, in modo da tenere con una mano sola, i polsi di lei. Con l’altra cercò a tastoni la porta dell’armadietto, aprì con un movimento brusco e trovò un cordone.
«Questa volta la cosa è molto grave, Norm» disse Harold Gunnison. «Fenner e Liddell vogliono proprio la tua testa.»
Norman si avvicinò con la sedia, come se quella conversazione fosse il vero motivo della sua visita allo studio di Gunnison quella mattina.
Gunnison proseguì. «Io temo che vogliano riesaminare la faccenda della Van Nice, col pretesto che non vi può essere fumo senza arrosto. Tireranno in ballo anche Theodore Jennings per usarlo contro di te, pretenderanno che il suo “esaurimento nervoso” si è aggravato per la tua ingiustificata ostilità, la tua indebita severità nei suoi confronti e così via. Naturalmente abbiamo tutti gli elementi per una strenua difesa del tuo operato. Ma il solo fatto di parlare di queste cose influirà negativamente sugli altri consiglieri. C’è poi quel tuo discorso sul sesso che terrai alle madri degli allievi, e i tuoi amici, quegli attori che hai invitato in collegio. Personalmente io non faccio alcuna obiezione, ma guarda che il momento è scelto male.»
Norman annuì, disciplinatamente. La signora Gunnison sarebbe dovuta arrivare tra poco. La cameriera gli aveva appena detto al telefono che lei era uscita per recarsi da suo marito.
«Naturalmente queste accuse non hanno alcun peso in sé.» Gunnison appariva insolitamente grave, lo sguardo preoccupato. «Ma, come ti ho detto, lasciano una traccia antipatica, possono essere un cuneo col quale scuotere la tua posizione. Il vero pericolo è rappresentato da un attacco limitato ma concentrato sul modo di condurre i tuoi corsi, sui tuoi discorsi in pubblico, e forse su alcuni aspetti della tua vita di società. Poi seguirà un discorso sulla necessità di effettuare delle restrizioni, ove siano opportune, capisci ciò che voglio dire?» Fece una pausa. «Ciò che più mi dà noia è il fatto che Pollard si sia raffreddato nei tuoi confronti. Io gli ho detto esattamente ciò che pensavo della nomina di Sawtelle, e mi ha risposto che i consiglieri glielo hanno imposto. Non è cattivo, ma ha il pallino della politica.» Gunnison si strinse nelle spalle come se fosse un fatto di dominio pubblico che la distinzione fra professori e uomini politici fosse vecchia come il mondo.
Norman si scosse. «Temo proprio di averlo insultato la settimana scorsa. Abbiamo avuto una lunga discussione e io ho perso le staffe.»
Gunnison scosse la testa. «Ciò non basta a spiegare il suo atteggiamento. Gli insulti, lui è in grado di incassarli. Se ti si mette contro è solo perché lo ritiene necessario e opportuno (che parola odiosa!) ai fini dell’opinione pubblica. Tu sai come dirige il collegio. Ogni due o tre anni bisogna che getti qualcuno in pasto alle fiere.»
Norman ascoltava appena. Pensava al corpo di Tansy, così come l’aveva lasciato, con le braccia e le gambe legate, la mascella pendente, il respiro affannoso, il fiato atroce a causa del whisky che le aveva fatto ingoiare. Era una via tortuosa, quella che egli aveva intrapreso, ma per arrivare a una soluzione non ve n’erano altre. A un certo momento, la notte precedente, si era quasi deciso a chiamare un medico e forse a farla ricoverare. Ma se lo avesse fatto avrebbe perduto per sempre ogni possibilità di ricuperare la ragione di Tansy. Quale psichiatra avrebbe creduto al complotto malefico di cui Norman conosceva l’esistenza, diretto contro l’integrità mentale di sua moglie? Per ragioni analoghe non c’era alcun amico al quale rivolgersi per un aiuto. No, l’unica strada era quella di puntare diritto alla signora Gunnison. Ma non era piacevole l’ipotesi di essere inquadrato nei titoli dei giornali come ad esempio LA MOGLIE DI UN PROFESSORE VITTIMA DI TORTURE. LEGATA E CHIUSA IN UNA DISPENSA DAL MARITO.
«È veramente molto grave, Norman» ripeteva Gunnison. «Mia moglie ne è convinta, ed è molto in gamba in queste faccende, conosce la gente.»
Sua moglie. Ubbidientemente Norman annuì.
«Per nostra sfortuna i nodi vengono al pettine in questo momento.» continuò Gunnison «mentre tu hai un sacco di guai, malattie e altro.» Norman notò che Gunnison guardava con una certa curiosità i suoi cerotti all’angolo dell’occhio e sotto una narice. Ma non gli diede alcuna spiegazione.
Gunnison era irrequieto, si voltò poi si riadagiò nella poltrona.
«Norm» disse «ho la sensazione che qualcosa non vada. Normalmente tu sei in grado di superare facilmente contrarietà di questo genere. Sei uno dei pochi uomini in gamba che abbiamo qui; ma io ho l’impressione che ci sia qualcosa di storto in tutto l’insieme.»
Era un’ovvia offerta a confidarsi e Norman sapeva che era fatta in buona fede. Per una frazione di secondo considerò l’idea di dire a Gunnison una piccolissima parte della verità. Ma equivaleva a portare i suoi guai in tribunale, e poteva immaginare, con la sua visione acuta, quasi allucinata, frutto della sua estrema stanchezza, come si sarebbero svolte le cose.
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