In quel momento, da quello spiraglio di luce portato sull’onda di rabbia scagliata nel suo cervello, scaturì un pensiero intelligibile. Quel pensiero diceva solamente: “Sciocco, perché lo hai fatto?”. Ma quel pensiero, come quella rabbia incandescente, somigliava tanto alla signora Gunnison, ed egli accettò, sia che volesse dire per lui pazzia o no, sia che significasse stregoneria o no, l’idea che la mente della signora Gunnison si trovasse dentro il suo stesso cervello e dialogasse con la sua stessa mente.
Per un attimo guardò il viso molle di quell’enorme corpo femminile che egli stava spingendo attraverso il campus.
Per un attimo si sgomentò all’idea di toccare, con il suo cervello, una personalità denudata. Ma fu solo un attimo. Poi, che fosse pazzia o no, la sua accettazione fu totale. Attraversò il campus, parlando dentro di sé con la signora Gunnison.
La domanda fu ripetuta: «Come hai fatto?»
Prima che se ne rendesse conto i suoi pensieri avevano risposto: «È stato lo specchio fatto col vetro di Rupert, che stava nella vetrina. Il calore delle tue dita lo ha fatto andare in pezzi. Io lo avevo tenuto isolato con un fazzoletto mentre lo trasferivo dalla vetrina alla tua borsetta. Secondo una credenza primitiva, l’immagine in uno specchio è l’anima di chi si specchia, o un veicolo per quest’anima. Se lo specchio si rompe mentre l’immagine vi è riflessa, l’anima rimane per sempre chiusa fuori del corpo.» Tutto questo discorso, dato che non era rallentato dalla parola, fu formulato in un lampo.
Con la stessa fulmineità, il pensiero successivo della signora Gunnison gli giunse da quello spiraglio nel blocco di oscurità. «E dove porti ora il mio corpo?»
«A casa mia.»
«Che cosa vuoi?»
«L’anima di mia moglie.»
Seguì un lungo silenzio. La spaccatura si chiuse, poi si riaprì.
«Tu non la puoi prendere, io la tengo prigioniera, come tu tieni prigioniera la mia. Ma la mia anima te la nasconde, e la trattiene prigioniera.»
«Non la posso prendere, d’accordo. Ma tratterrò la tua finché non restituisci a mia moglie la sua anima.»
«E se mi rifiuto?»
«Tuo marito è una mente realistica. Non crederà mai a ciò che il tuo corpo gli dirà. Consulterà gli alienisti, i medici migliori, sarà molto addolorato, ma finirà per far ricoverare il corpo di sua moglie in un asilo per pazzi.»
Norman avvertì un senso di disfatta e di sottomissione, e anche un senso di panico, nella risposta non pronunciata. Ma la disfatta e la sottomissione non erano ancora apertamente accettati.
«Tu non sarai in grado di trattenere la mia anima, perché la odi. Ti fa ribrezzo. La tua mente non la sopporterà.»
Per appoggiare questa sua dichiarazione, giunse da quella spaccatura un rivoletto che si gonfiò in un baleno. Le cose che egli odiava vennero in piena luce e le dovette subire. Norman accelerò il passo, e il corpo che si trascinava dietro cominciò ad ansimare.
«C’è stata Ann» dicevano i pensieri della signora Gunnison, non proprio con le parole ma con la pienezza della memoria. «Ann venne a lavorare da me otto anni fa. Era una creatura fragile, bionda, ma in grado di lavorare duramente tutto il giorno. Era docile, molto sottomessa e in preda alla paura. Lo sai che si può governare una persona solo con la paura senza adoperare un atomo di forza? Una parola un po’ brusca, uno sguardo severo agiscono per sottinteso; non è ciò che si dice direttamente che conta. Gradatamente, acquisii su di lei tutto il potere che sulla ragazza avevano avuto il padre, i maestri, il confessore. La facevo piangere solo a guardarla in un certo modo. Le incutevo terrore piantandomi sulla porta della sua camera. Potevo obbligarla a reggere piatti bollenti mentre ci serviva a tavola, e farla attendere a mio piacere mentre continuavo a discorrere con Harold. Ho visto poi com’erano le sue dita.»
Nella stessa maniera mentale Norman apprese le storie di Clara, di Milly, di Mary e di Ermengarde. Non riusciva a scindere i suoi pensieri da quelli della signora Gunnison, non poteva chiudere lo spiraglio, sebbene fosse in suo potere allargarlo. Un po’ come accade per le meduse, e per certe piante carnivore, l’anima di lei si apriva sino a cingere quella di Norman tant’è che pareva lui il prigioniero anziché lei.
«Poi venne Trudie. Trudie mi adorava. Era una ragazzina lenta e un po’ stupida. Proveniva da una famiglia contadina. Passava delle ore ad occuparsi dei miei vestiti. La incoraggiavo in varie maniere al punto che tutto ciò che mi apparteneva le pareva sacro. In ultimo avrebbe fatto qualsiasi cosa per me, il che era molto divertente, perché arrossiva facilmente e non era mai riuscita a sbarazzarsi del suo senso di vergogna.»
Ma erano arrivati sulla soglia di casa, e il flusso dei pensieri ripugnanti cessò. Lo spiraglio si restrinse, divenne una minuscola fessura.
Spinse la signora Gunnison sino alla porta dello spogliatoio di Tansy. Indicò la povera figura legata, allungata sulla coperta che egli aveva steso sul pavimento. Giaceva nella stessa posizione in cui l’aveva lasciata con gli occhi chiusi, la mascella pendente, il fiato grosso. Quella visione parve aggiungere un’ulteriore pressione sulla sua mente, ma questa proveniva dal basso ed entrava attraverso le orbite.
«Liberala da ciò che hai introdotto in lei per sortilegio» si sorprese a pronunciare.
Ci fu una pausa. Un ragno nero uscì dalla gonna di Tansy e si mise a camminare sulla coperta. Nell’attimo in cui pensò: “Eccolo, è quello!” Norman si buttò sull’insetto e lo schiacciò col piede mentre cercava di scappare sul pavimento. Egli fu conscio di un pensiero molto velato nella sua mente: “La sua anima ha cercato il corpo più vicino. E ora il mio fedele sovrano non eseguirà più alcun incarico per me. Non animerà né carne umana, né legno, né pietra. Mi dovrò cercare un altro cane.”
«Restituiscile ciò che le hai tolto.»
Questa volta la pausa fu più lunga, lo spiraglio si chiuse del tutto, la figura legata si agitò come se stesse per rotolare su se stessa. Le labbra si mossero, la mascella rilassata si strinse. Conscio solamente di quel peso oscuro sulla sua mente e di una consapevolezza dei sensi così acuta che credette di avvertire il battito del cuore nel corpo di Tansy, egli si chinò, tagliò la corda, tolse i tamponi che aveva messo ai polsi e alle caviglie perché i legacci non le facessero male.
La testa rotolava qua e là senza posa. Le labbra si muovevano, pareva che dicesse “ Norman ”. Le palpebre batterono ed egli si sentì come un brivido che gli attraversava il corpo. Poi in un fluire improvviso, gioioso, come un fiore che sboccia miracolosamente in un attimo, l’espressione tornò sul suo viso, le mani abbandonate si rianimarono, si posarono sulle spalle di Norman, e dagli occhi aperti, un’anima senza timore, sana, lucida lo guardò in faccia.
Un istante dopo, l’oscurità repellente che premeva sul suo cervello sparì.
Con uno sguardo sconfitto, velenoso, la signora Gunnison si voltò ed uscì. Norman udì i suoi passi allontanarsi, la porta dell’ingresso che si apriva. Poi le braccia di Norman cinsero Tansy, le loro labbra s’incontrarono.
Appena la porta d’ingresso si chiuse, come se fosse stato un segnale, Tansy respinse il marito sebbene le sue labbra gli restituissero ancora il bacio.
«Non dobbiamo osare di essere felici, non dobbiamo, Norman» gli disse «Neanche per un attimo.»
Uno sguardo turbato e apprensivo rannuvolava l’anelito di felicità nei suoi occhi, come se guardasse un muro alto che le nascondeva la luce del sole. Quando rispose alla domanda spaventata di Norman, fu in un sussurro, come se il fatto solo di pronunciare quel nome fosse in sé pericoloso.
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